Non si placano le polemiche per la deroga consentita dall’Agcom alla Disney sulla produzione di opere indipendenti made in Italy. Una norma europea impone al colosso dell’animazione di investire il 10% dei suoi introiti per sostenere i progetti locali. Disney ha chiesto una deroga alla normativa, motivandola con la scarsa qualità delle produzioni italiane. L’Autorità è venuta incontro alle istanze dell’industria americana, esentandola di fatto dagli obblighi. La decisione di Agcom è giustificata a livello normativo dall’art.44 del Decreto Romani 2010. La delibera è, però, contestata nel merito da chi nel settore ci lavora e non si riconosce nelle valutazioni di Disney e Agcom.
Le dimensioni del settore
Per varie associazioni il mercato italiano non presenta carenze né dal punto di vista quantitativo né per quanto concerne la qualità delle produzioni. Sono 70 le società impegnate nel settore, per un totale di 3000 ore di programmazione annue. Una offerta caratterizzata non solo dalle serie animate, ma anche da videogames, app per dispositivi mobili e produzioni pubblicitarie. Cartoon Italia, Cartoon Lombardia e Asifa Italia hanno inviato una richiesta formale all’Agcom sui motivi alla base della deroga. Concorde con le associazioni è l’eurodeputata italiana Silvia Costa, che ha sottolineato l’incongruenza tra l’operato della Disney in Italia e le azioni di promozione nei più importanti paesi europei. Con Francia e Germania la multinazionale dell’animazione ha siglato recentemente accordi di co-produzione. E questo non è avvenuto in Italia, nonostante il Decreto Romani preveda forme di cooperazione da instaurare prima di un’eventuale deroga agli investimenti.
Rischi per il pluralismo?
E’ davvero così alto il divario qualitativo? Non sembrerebbe, considerata la notorietà di prodotti made in Italy come Winx e Geronimo Stilton. Le aziende italiane chiedono aiuto alla Disney, ma non possono ottenerlo se l’Autorità non garantisce i loro diritti. Considerazioni economiche a parte, la bocciatura delle produzioni nostrane comporta un pesante danno di immagine, che ostacola i rapporti commerciali con le aziende di altri paesi. Il rischio è che vengano tarpate le ali al già instabile mercato italiano, danneggiando di fatto il pluralismo nell’industria creativa e audiovisiva.