Demagogia e populismo, i pericoli per le imprese editrici indipendenti

Caterina Bagnardi, presidente della File, ci racconta la realtà delle piccole imprese editrici che provano ad invertire la rotta lavorando su qualità del prodotto, autonomia e innovazione. “Ma non è semplice, anche perché il disimpegno dello Stato favorendo i grandi rischia di appiattire il livello del dibattito”

Gli editori indipendenti vivono una realtà sfiancante, una crisi tangibile in cui, da parte del lettore, è calato vistosamente il livello di affidabilità dell’informazione. Una crisi in cui le difficoltà da affrontare contemporaneamente sono tante, troppe. A spiegarcelo è Caterina Bagnardi, presidente della Federazione Italiana Liberi Editori, che mette a nudo un dato emblematico di questa situazione: “L’Italia è uno dei Paesi a livello europeo caratterizzato dalla più bassa spesa pubblica a sostegno del pluralismo”. Ciononostante da anni si parla più di quanto la stampa riceva tramite finanziamenti e contributi, che dei grandi problemi del settore. Eppure, riferisce ancora la Bagnardi, dalla Gran Bretagna avvertono: il solo mercato non basta a garantire il pluralismo.

Qual è il momento vissuto dagli editori indipendenti?
Difficile dirlo, credo siano tutti sfiancati. Ritengo che questo non sia un momento, oramai è divenuta una quotidianità, una realtà nella quale sopravvivere. Questa crisi è stata generata da una crisi generale dell’economia, dalla perdita della percezione del livello di affidabilità dell’informazione da parte del lettore, dal taglio dei budget pubblicitari e dall’instabilità e drastica riduzione dell’intervento pubblico. Sono troppe le difficoltà da affrontare contestualmente: il problema è che a fronte di un modello che è scomparso non se ne è affermato uno nuovo. Le piccole imprese editrici di giornali locali in questo momento stanno provando a lavorare proprio su tutte le direttrici indicate, qualità del prodotto, autonomia, innovazione, ma non è semplice, anche perché il disimpegno dello Stato favorendo i grandi rischia di appiattire il livello del dibattito

A che punto sono il lavori per la riforma dell’editoria e per l’istituzione del Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione?
La nuova legge approderà alla Camera in questa settimana e inizia l’iter Parlamentare
Adesso sembra possa viaggiare speditamente verso l’approvazione.

Quali sono le vostre priorità in questa situazione?
Il principale nodo che la riforma deve affrontare è quello di creare un quadro legislativo chiaro e trasparente basato sulla certezza dei rapporti giuridici. Garantire la stabilità e la certezza del contributo non è un privilegio, ma un presupposto, anzi il presupposto dell’autonomia dell’informazione dalla politica e, in particolare, dai Governi che oggi possono decidere su un tema, la tutela del pluralismo e delle minoranze che, per definizione, non può essergli delegato. E non è possibile confondere temi come la governabilità con la tutela delle minoranze. Chi governa ha il dovere di poter decidere; ma, a maggior ragione, si deve garantire la libertà di opinione.

Come giudica in tal senso il lavoro svolto dal governo nel corso dell’ultimo anno?
È stato svolto un serio lavoro, la Commissione Cultura ha svolto un vero approfondimento e l’on. Rampi ha avuto il merito di capire effettivamente le difficoltà che le testate locali stavano e stanno vivendo.

La proposta di legge per l’editoria è stata approvata dalla Camera e proprio l’on. Rampi ha detto di sperare che la riforma sia approvata entro l’estate: secondo lei i tempi saranno rispettati?
I tempi sono fondamentali ed è bene far presto. Ma anche i tempi devono far parte di un sistema di certezza del diritto. Se la legge viene approvata ora va bene, ma se l’approvazione slitta di mesi questa legge non può essere efficace per il 2016, in quanto alla fine diverrebbe retroattiva, come fu per la legge 16 luglio 2012, n. 103.

Quali sono i punti che potranno segnare la ripresa dell’editoria italiana?
La ripresa del settore dell’editoria dipende da molti fatti; diciamoci la verità la crisi ha di fatto chiuso le realtà, quelle autonome, ed ha rafforzato i grandi gruppi editoriali. Anche loro hanno perso copie, ma è un problema di quote di mercato, il denominatore, il numero dei lettori è sceso a tal punto che basta rimanere aperti per aumentare il venduto in termini di quota di mercato. Ma torniamo alla domanda, come si esce dalla crisi? Partendo dalla base, ossia dal rapporto tra l’informazione ed il lettore; e per questo si prescinde dal mezzo, in un periodo di oggettivo spaesamento culturale la fiducia nei giornali, visti quasi come complici delle istituzioni, è crollata. Bene la ripresa parte dalla capacità di restituire ai giornali un ruolo culturale che hanno perso

Ci sono delle criticità, a suo giudizio, che non sono state inserite nel testo di riforma o che avrebbero bisogno di essere più approfondite?
Almeno tre.
I decreti attuativi, interamente delegati al Governo; non è pensabile che il Governo decida sul pluralismo, sulla tutela delle minoranze; e non mi riferisco a questo governo, ma a tutti i governi possibili, è un problema di regole elementari di democrazia. Ci sono ancora troppi punti da chiarire, dalle regole per le aziende esistenti a quelle per le start up.
Poi viene introdotto un limite del contributo fissato in ragione del cinquanta per cento degli altri ricavi; è giusto introdurre un parametro che crei una correlazione tra le mie attività commerciali ed il sostegno, per evitare che esistano ancora giornali che vivano solo di contributo pubblico. Ma il limite deve consentire a tutti di sopravvivere, chi ha fissato questo vincolo del cinquanta per cento non conosce la realtà, in particolare dei quotidiani locali ed in particolare di quelli al sud
E poi è necessario che il contributo venga quantificato e fatto rientrare nell’ambito di un quadro generale di certezze giuridiche. il fondo sul pluralismo dovrà essere consolidato sulla platea delle società già esistenti. Per le start up bisognerà prevedere un ulteriore stanziamento. Mi spiego, la ripartizione a torta del fondo non può essere suddivisa all’infinito. Così moriranno le vecchie iniziative e le nuove stenteranno a crescere.

In questo contesto, la campagna Meno giornali Meno liberi ha prodotto i risultati sperati?
Fino al 2011 i finanziamenti pubblici all’editoria erano ingenti, le norme avevano maglie troppo larghe ed i controlli erano scarsi, ragion per cui in passato si sono verificati abusi che hanno generato scandali che hanno colpito negativamente l’opinione pubblica. Tutto questo è stato affiancato da campagne denigratorie e aggressive anche se da diversi anni le cose non stanno più così. Le norme sono diventate stringenti e i controlli severi.
E la campagna Meno giornali, meno liberi, aveva un primo obiettivo, cioè quello di chiarire all’opinione pubblica ed anche agli addetti ai lavori su cosa sono veramente i contributi pubblici alla stampa e perché è necessario sovvenzionare il settore e chiarire soprattutto che l’Italia è il paese europeo in cui si versano meno soldi pubblici al sostegno del pluralismo dell’informazione.
Crediamo di essere riusciti a compiere questo primo passaggio. Adesso è allo studio la fase successiva.

Perché il Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione è diventato necessario per la sopravvivenza del comparto?
In Italia il legislatore da oltre un decennio (1981) ha privilegiato la opzione, che sembra più funzionale al disegno di garantire un sistema d’informazione nel complesso più ricco ed articolato, cercando di indirizzare le risorse verso le imprese che garantiscono autonomia nella produzione dell’informazione. Si tratta, in altri termini, dell’editoria non profit e di cooperativa.
Una riforma deve avere alla base una scelta politica sulla direzione che l’intervento, se vi deve essere, deve assumere. Sul “se vi deve essere” va segnalata una sostanziale modifica dell’approccio culturale sul tema a livello internazionale. L’Italia è uno dei Paesi a livello europeo caratterizzato dalla più bassa spesa pubblica a sostegno del pluralismo. Sono dati oggettivi che dimostrano il pericolo della demagogia e del populismo, visto che per anni si è detto che solo nel nostro Paese la stampa riceve, comunque finanziamenti. Nella liberale Gran Bretagna il rapporto “digital Britain” evidenzia che il solo mercato non sarà in grado di garantire il pluralismo. Ma addirittura negli stati Uniti il dibattito culturale è nettamente volto a trovare strumenti idonei a garantire un’informazione libera e diffusa.
L’innovazione non è tecnologica, in quanto la tecnologia riguarda un altro ambito che poco ha a che fare con il pluralismo. L’innovazione va intesa nel senso dei contenuti, attraverso sistemi che consentano modi diversi di produrre e veicolare informazione (si pensi agli esperimenti di citizen journalism molto avanzati negli Stati Uniti) in modo da stimolare una nuova e diversa domanda di contenuti.
Il Governo può, quindi, accelerare la discussione stessa presentando un proprio testo che pur introducendo ulteriori criteri che affinino la logica della riforma del 2012 consenta all’editoria non profit ed autonoma di uscire dignitosamente da questa crisi, garantendo al Paese quel carattere necessario di pluralismo ed indipendenza dalla politica e dai grandi gruppi economici.

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