Il Parlamento va in ferie e il futuro della Rai slitta (anche ufficialmente) a settembre. Il dossier resta aperto. In un clima di contrapposizione politica che risente più degli interessi di partse e poco pare ispirato da una visione lungimirante per dare un futuro alla tv di Stato. La notizia più interessante, in tal proposito, è arrivata dal ministro all’Economia Giorgetti che non ha escluso la possibilità di privatizzare “parte” della Rai. Sia chiaro, non prima di aver “definito i limiti del servizio pubblico”. Se questa è, come sembra, la cosa più interessante vuole dire proprio che di nuovo non c’è granché. È da anni, infatti, che la Rai sta cedendo ai privati pezzi interi del suo patrimonio. Dalle torri alle reti. Ogni governo, oberato dai debiti che aumentano sempre, deve trovare soldi per non deludere le aspettative del proprio elettorato di riferimento. E la Rai, in tal senso, ha sempre rappresentato un sicuro bancomat politico a cui attingere. Se non coi tagli o con le cessioni con la retorica, tanta retorica, quella che ammanta l’intero viale Mazzini.
La questione si intreccia con quella delle libertà di stampa. Che c’è in Italia. Ma che è malposta. Non riguarda, almeno non solo, i dispettucci che si scambiano governi e giornaloni. No. È una vicenda seria che impatta sulla vita quotidiana di milioni di cittadini, quelli che non hanno la fortuna-sfortuna di vivere in un capoluogo, ad accedere all’informazione. Le edicole che chiudono e i giornali che non arrivano. Quelli, beninteso, che sono rimasti. Perché tanti sono chiusi nel disinteresse generale. Che, talora, s’è trasformato nell’ululato belluino del populismo digitale. Già, il web. Non ha sostituito il giornale e non per il “feticismo” della carta. Ma perché è un mondo che sembra ancora troppo distante dalla normalità. Un mercato dominato da pochissimi player internazionali a cui gli Stati non hanno la forza di opporsi. Ma in Italia, dove abbiamo perso decine e decine di testate, preferiamo appassionarci a che Rai sarà. A gioire, o deprecare, a seconda della bandiera da sventolare, per il successo di un programma, per la nomina di un dirigente. È più facile, è più comprensibile a tutti, da Canicattì a Bolzano, è più semplice da infilare in un tweet. E il pluralismo resta confinato nelle cose difficili.
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