I giornalisti condannati per diffamazione non rischieranno più il carcere ma incorreranno in sanzioni pecuniarie fino a 10mila euro, mentre l’obbligo di rettifica sarà molto più stringente di quello attuale e varrà anche per le testate registrate on line. Sono queste le linee portanti del ddl sulla diffamazione che approda in aula a palazzo Madama a partire da oggi, secondo un calendario che dovrà fare i conti comunque con le sedute del Parlamento in seduta comune per l’elezione dei membri di Csm e Consulta. I senatori della commissione Giustizia che hanno votato il mandato al relatore Rosanna Filippin (Pd) hanno licenziato un testo che modifica in parte quello che era stato trasmesso dalla Camera. E che si inseriva a sua volta sulla scia delle questioni lasciate aperte nella legislatura precedente attorno al caso di Alessandro Sallusti, per un articolo apparso a suo tempo su ‘Libero’. I parlamentari hanno continuato a lavorarci: si tratta di interventi di riforma della legge sulla stampa dell’8 febbraio 1948 e successive modifiche (compresa la legge sull’editoria del 1981), e sui codici penale e di procedura penale. Come la stessa Filippin spiega all’Adnkronos, “in commissione abbiamo discusso molto sui limiti della rettifica e si è deciso di consentire al giornalista e al direttore una sorta di vaglio della richiesta di rettifica: quindi, non ci si potrà rifiutare di pubblicare la rettifica richiesta se non quando è chiaramente falsa. Questo significa che giornalista e direttore si assumono la responsabilità della decisione e rinunciano alla non punibilità”. Inoltre, “abbiamo schiuso una finestra sul diritto all’oblio, recependo la cosiddetta ‘sentenza-Google’ della Cassazione. Abbiamo nel complesso cercato di contemperare libertà di espressione e diritto a non essere diffamato”. La punibilità per i giornalisti, naturalmente, resta ma non comporta il rischio di finire dietro le sbarre: si pagherà una sanzione. Molto più severa la procedura per la la rettifica: va pubblicata gratuitamente, senza commento senza risposte e senza titolo con un ‘format’ preciso, che indica che si tratta, appunto, di “rettifica” di un dato articolo, con i riferimenti al titolo, alla data e all’autore. La rettifica viene pubblicata su richiesta dei soggetti “di cui siano state pubblicate immagini o ai quali siano siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità”. Purché, le dichiarazioni o le rettifiche “non abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale o non siano documentalmente false”. Il direttore è inoltre tenuto a informare l’autore del servizio firmato della richiesta di rettifica. La mancata o incompleta pubblicazione della rettifica comporta una sanzione da 8mila a 16mila euro. La diffamazione con il mezzo della stampa è punita con una multa fino a 10mila euro ma se l’offesa consiste nell’attribuzione dolosa di un fatto falso, la multa varia da 10mila a 50mila euro (i senatori hanno leggermente limato la pena inizialmente prevista dai deputati). Sarà il giudice comunque a quantificare il risarcimento del danno danno, da quantificare sulla base della diffusione della testata, della gravita’ dell’offesa e dell’effetto riparatorio della rettifica. L’azione civile dovra’ essere esercitata entro due anni dalla pubblicazione. L’autore dell’offesa non è punibile quando abbia chiesto la pubblicazione della smentita o della rettifica richiesta dalla parte offesa. Il direttore o il vice direttore responsabile della testata risponde, secondo il testo licenziato dalla commissione Giustizia e a differenza di quello della Camera, “a titolo di colpa” dei delitti commessi con il mezzo della stampa, radiotelevisivo o con altri mezzi di diffusione se il delitto è conseguenza dell’omesso controllo. Viene precisato, inoltre, che direttore e vice direttore responsabile rispondono di quanto pubblicato senza firma. Una prima ‘finestra’ normativa su quanto pubblicato in generale sul web è quella che recepisce la sentenza della Cassazione del 2012. E un primo passo per il diritto all’oblio quello che stabilisce che l’interessato può chiedere l’eliminazione “dai siti internet e dai motori di ricerca” dei contenuti diffamatori o dei dati personli trattati in violazione della legge. In caso di rifiuto il cittadino può chiedere che un giudice disponga la rimozione di immagini e dati di quella natura. Non solo: in caso di morte dell’interessato, tali facoltà e diritti “possono essere esercitati dagli eredi o dal convivente”. Non è detto, però, che in aula fili tutto liscio. Il Movimento Cinque Stelle, che ha votato contro in commissione, annuncia battaglia. Come dice il vice presidente M5S della commissione Giustizia, Michele Giarrusso: “Questo ddl è aberrante: con tutti i problemi che ha il Paese, la maggioranza Renzi-Berlusconi punta a intimidire i giornalisti e gli editori. Dietro la carota dell’eliminazione del carcere (che peraltro ormai non c’era per nessuno), si vede il bastone delle conseguenze economiche per chi volesse insistere a scrivere dei politici corrotti”. Qualche mal di pancia anche nella maggioranza. Enrico Buemi, senatore socialista eletto nel Pd, non si capacita: “Come si fa a tenere fuori i temi legati alla diffamazione derivante dalla fuga di notizie dagli uffici giudiziari? O la pubblicazione di intercettazioni telefoniche in cui vengono coinvolte persone non interessate dall’inchiesta? In questo caso -conclude con una battuta- non è solo diffamazione è ‘ricettazione’ a mezzo stampa…”.