È vero che viaggiamo con una data di scadenza. È il 30 settembre prossimo. Il cda delle edizioni Europa ha deciso mesi fa, e ha ribadito lo scorso 4 luglio, che se prima di quel momento non interverranno «fatti nuovi» il giornale cesserà le pubblicazioni.
È una scelta abbastanza inconsueta nel mondo editoriale, ma ha una sua spiegazione. Europa non ha debiti, anzi è creditrice nei confronti dello Stato dei rimborsi pubblici che come è noto vengono erogati con molto ritardo. In genere, quando si arriva a momenti di difficoltà, gli editori cercano di prendere tempo ricorrendo a forme varie di anticipi finanziari. In questo caso s’è deciso diversamente: calcolato e accantonato tutto quanto è di spettanza di dipendenti e fornitori, Europa vuole chiudere un giorno prima di cominciare a far debiti. Una scelta virtuosa, ma in verità anche obbligata: dall’estate 2012 i nostri “editori” sono i liquidatori della ex Margherita, dunque un collegio di professionisti che gestisce il patrimonio residuo di quel partito disciolto senza avere il mandato (né la volontà) di indebitare un soggetto giuridico esistente ma in via di estinzione.
Se Europa rischia di chiudere è dunque per ragioni esclusivamente di conto economico. In altre condizioni, una testata che s’è fatta un buon nome e ha conquistato un suo pubblico troverebbe le vie per sopravvivere, in attesa degli eventi.
Dopo undici anni di pubblicazioni, la storia recente del nostro giornale è esattamente la storia del tentativo di dare risorse ed equilibrio a un’azienda nata in un’altra era politica, quando era considerato giusto e sostenibile un sostanzioso finanziamento pubblico a giornali (politici, di partito, cooperativi) che non avrebbero trovato risorse sufficienti sul mercato.
Quel sostegno, non ho problemi a ribadirlo oggi, continua a essere una cosa giusta. Solo dei fanatici neoliberisti potrebbero negare che ci sono materie e produzioni della cui sopravvivenza la collettività può farsi carico, perché altrimenti le logiche del mercato non li ammetterebbero. L’editoria è un caso tipico, non l’unico. In generale lo sono tutte le produzioni culturali, intellettuali, artistiche, ma ce ne sono altre. Tutti i paesi occidentali prevedono forme di sostegno pubblico all’editoria, l’Italia non è neanche la più generosa. È considerato un fattore di civiltà e di democrazia.
Non conta però solo la giustezza (che pure nell’attuale stagione politica è duramente contestata da una demagogia inconsapevolmente ultra-mercatista). Conta anche la sostenibilità. E obiettivamente in Italia il sistema di provvidenze, per come funzionava e per le sue dimensioni, non era più sostenibile e non era più socialmente accettabile tanto più dopo numerosi casi di abusi e arricchimenti alle spalle dei contribuenti. Quindi si va ridimensionando, fin quasi all’esaurimento (per Europa, ultime stime, vale ormai poco più di 500 mila euro all’anno): è un problema di democrazia che si impoverisce, io credo, ma non si possono ignorare i precedenti e il contesto nel quale si consumano le crisi editoriali di questo periodo.
La rivoluzione digitale contemporaneamente moltiplica queste crisi, ma pare anche dar loro una speranza di soluzione. Non devo dilungarmi sul tema, già ampiamente sviscerato: fin qui è più vera la prima affermazione (si comprimono drammaticamente bilanci, presenze editoriali e occupazione stabile), mentre la seconda rimane appunto una vaga speranza (si espande a dismisura la quantità di informazione prodotta e il numero di chi la produce con uno status precario, senza che dalla rete abituata alla gratuità tornino indietro risorse economiche minimamente sufficienti a generare e alimentare un nuovo sistema).
Nel suo tentativo di uscire da un meccanismo non più sostenibile, Europa è un piccolo simbolo di questa epoca. Abbiamo tagliato, abbiamo risparmiato (sui nostri stipendi, innanzi tutto), abbiamo spostato risorse dalla costosa distribuzione in edicola a una nuova e più agile presenza online. A un anno e mezzo dalla svolta digitale, Europaquotidiano.it e Donneuropa.it sono presenze affermate, riconosciute, apprezzate. È stata un’operazione di successo che ci ha fatto trovare sulla rete un pubblico a tratti perfino appassionato, mai avuto in dieci anni di vita (fino a picchi di oltre 40 mila visitatori unici al giorno). Eppure, a questo punto potremmo definirla anche come la storia di una bella, onorevole e onorata morte.
Poi naturalmente c’è il lato politico della vicenda. Che è ineludibile, per un’impresa come questa.
Dopo aver stentato negli anni nei quali – in politica e nell’editoria – andavano per la maggiore i cultori della guerra civile permanente e dell’estremismo verbale, Europa può spegnersi in un momento nel quale pare affermarsi il tipo di politica e di sinistra per le quali ci siamo sempre battuti. Avere ragione nel momento sbagliato è un torto, sta di fatto che la gran parte delle idee e delle posizioni del Pd di oggi le potreste trovare nella collezione di undici anni di Europa. Che del resto si dichiarava «giornale per il partito democratico» anni prima che esistesse non dico il partito, ma perfino il nome del Pd.
Ha un senso politico, oltre che giornalistico e come abbiamo detto economico, chiudere proprio oggi questa esperienza?
Non spetta a noi deciderlo. Il cda di Europa ha valutato la situazione economica ma ha sempre rivendicato il valore politico dell’impresa. A più riprese, in sedi pubbliche e private, questa rivendicazione è stata condivisa da tanti. Lettori (soprattutto, molti, quelli che ci hanno conosciuto da poco grazie al web e ai social network), colleghi del mondo dell’informazione, esponenti del mondo politico, dirigenti del Pd dell’attuale e delle precedenti segreterie.
Il Pd com’è noto è il nostro ambiente di riferimento, ci ha sostenuto con accordi commerciali ma non ha alcun legame giuridico o societario con Europa. Dunque non ha responsabilità formali né esposizioni finanziarie (tipo quelle, per capirci, che sono state assunte per aiutare l’Unità) e potrebbe anche decidere di non muovere un dito per noi: qualcuno parlerebbe di errore, altri di ingratitudine o di superficialità, ma non si potrebbe contestare altro.
Viceversa, in piena libertà, i dirigenti democratici hanno dichiarato di voler lavorare come facilitatori di una transizione societaria che porti nuove risorse. Un lavoro che non è ancora iniziato perché, comprensibilmente, l’emergenza del caso dell’Unità (di altra importanza storica e anche ben altro rischio e peso economico) si è presa la priorità delle attenzioni e degli sforzi.
Vedremo se e come l’allarme lanciato in queste ore funzionerà da acceleratore dell’impegno assunto. Per ora è stato utile ad attivare una bella solidarietà da parte dei nostri lettori: una manifestazione di affetto e interesse che ci incoraggia e alla quale daremo spazio e, se necessario, il valore di una vera campagna.
In ogni caso, non rimarremo fermi a guardare e ad aspettare.
Perché il salvataggio di una cosa morta e inutile non lo vogliamo neanche noi che viviamo e lavoriamo qui. Fatti salvi tutti i diritti acquisiti, non si tratta di mettere toppe a una barca che non può galleggiare: chi avrebbe voglia di rimanere a bordo, o di salirci? Il diritto a “continuare”, da parte di chi fa Europa, se esiste è legato alla qualità e al senso del suo lavoro. E anche alla capacità di cambiare, innovare, correggere errori, adeguarsi e cercare spazi nuovi, formule diverse dalle attuali.
Questo è esattamente ciò che stiamo facendo in queste settimane, mentre continuiamo a far uscire il giornale: ci stiamo preparando – se e quando si paleserà qualcuno intenzionato a far vivere Europa anche oltre il 30 settembre 2014 – a mettere nuove risorse, nuovi sforzi e nuova intelligenza dentro un progetto innovativo, su piattaforme diverse e magari, chissà, anche economicamente sostenibile.
Questo è quanto, per adesso.
@smenichini
fonte:http://www.europaquotidiano.it/2014/07/15/che-cosa-succede-a-europa/
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