Editoria

Così la pandemia ha dimostrato che il giornalismo non si fa senza giornalisti veri

Solo il 14% degli italiani ha ritenuto equilibrata la comunicazione sul tema della pandemia Covid. Per i cittadini il tema è stato trattato in maniera “ansiogena” e con “eccessi” che avrebbero avuto ripercussioni sullo stato d’animo delle famiglie.

Sono questi i risultati emersi dalla rilevazione Censis-Ital Communications sulla percezione degli italiani sull’argomento topico degli ultimi tempi. È ovvio considerare come pesi, e tantissimo, il problema della disinformazione e l’autentico “festival” delle fake news che hanno portato i cittadini a confondersi e a non sapere più come regolarsi. Su un argomento fondamentale che, come rileva il rapporto, per la prima volta nella storia ha portato “50 milioni di italiani, pari al 99,4% degli italiani adulti”, a cercare “informazioni sulla pandemia: non era mai accaduto prima”.

Secondo Censis e Ital Communications: “La pandemia rappresenta un caso esemplare di come un evento improvviso e sconosciuto, che ha impattato trasversalmente sulla vita di tutta la popolazione scatenando una domanda di informazione inedita a livello globale, possa essere oggetto di tanta cattiva comunicazione che, nella migliore delle ipotesi, ha confuso gli italiani sulle cose da fare, e in molti casi ha creato disinformazione”.

Non solo fake news, come ha fatto notare questa mattina il quotidiano Libero. Nel corso di un anno o poco più, dall’inizio dell’allarme, sono letteralmente fioriti prati interi di riviste scientifiche “farlocche”, pubblicate in Paesi dove la ricerca non è ritenuta affidabile almeno dal mondo scientifico occidentale. Eppure gli studi pubblicati qua e là sulle testate sorte e impostesi durante la pandemia hanno, almeno inizialmente, convinto i redattori delle più importanti riviste scientifiche internazionali che, come riporta Libero, hanno dovuto fare dietrofront su interi reportage pubblicati sulla scorta degli studi dati alle stampe dalle riviste meno accreditate.

Con risultati che sono stati devastanti dal momento che è cresciuta la sfiducia e si sono concretizzati, in larghi strati della popolazione, i rischi che si erano già paventati –in tempi non sospetti – quando si parlava di infodemia, cioé dei rischi dovuti all’overdose di informazioni non (abbastanza) filtrate che arrivavano ogni giorni, tramite internet, direttamente sugli smartphone dei cittadini. Lo stesso Censis ha fotografato questo problema e nelle fasi preliminari del rapporto ha scritto: “Un processo che garantisce libertà e pluralismo, ma che ha anche un rovescio della medaglia, perché nella filiera corta della comunicazione via web sono saltati i soggetti dell’intermediazione, che garantivano una verifica e una selezione delle notizie. In altre parole, nel mondo del web le agenzie di comunicazione, le agenzie di stampa e in molti casi anche i giornalisti non sono più indispensabili, con risultati che non sempre soddisfano gli utenti, che chiedono pene più severe per chi diffonde deliberatamente notizie false (56,2%), obbligo per le piattaforme di rimuovere le fake news (52,2%), obbligo di fact checking sui social media (41,5%) e campagne di educazione e sensibilizzazione sull’uso consapevole dei social (34,7%)”.

E dunque: “Ma il coronavirus ha dimostrato che la cattiva comunicazione può contagiare anche istituzioni e media tradizionali, per cui vecchi e nuovi media hanno sempre più bisogno di figure esterne, autorevoli e competenti, che garantiscano sulla affidabilità e sulla qualità delle notizie che veicolano. E i professionisti che lavorano nelle agenzie di comunicazione rappresentano un anello della filiera indispensabile per garantire buona comunicazione”.

Il messaggio è fin troppo chiaro: la digitalizzazione è fondamentale ma il ruolo del giornalista, chiamato a dare ordine e filtri alle notizie che arrivano da ogni parte – anche a costo di prendere il “buco” – è fondamentale. Una corretta informazione, plurale per di più, ha bisogno come il pane di professionisti in carne ed ossa (non semplici algoritmi che “buttino dentro” le notizie) per svolgere al meglio il ruolo di garante delle libertà fondamentali di una democrazia, specialmente quando i tempi si fanno grami. A buon intenditor poche parole: il troppo non paga, meglio poco e (davvero) affidabile.

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