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Corte di Strasburgo: “No alla rimozione degli articoli. Anche se diffamatori. Basta una nota che avverta il lettore”

Gli articoli online non vanno rimossi. Anche se giudicati diffamatori. Basta una nota per “equilibrare” diritto all’informazione e reputazione. Ha deciso così la Corte europea dei diritti fondamentali. Per il tribunale di Strasburgo, infatti, i contenuti dei giornali sono protetti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Anche se l’articolo 10 lascia spazio all’interpretazione.  Morale della favola: il diritto all’oblio sembra solo un “vecchio ricordo”.
Ma procediamo con ordine e facciamo chiarezza.
La Corte europea, il 16 luglio scorso, ha bocciato il ricorso di due avvocati polacchi i quali avevano chiesto, invano, la rimozione di alcuni articoli nei quali si metteva troppo in evidenza l’esistenza di non meglio precisati “rapporti di affari” con alcuni politici del luogo.
I giudici di Strasburgo hanno rigettato l’istanza. Per la Corte la libertà di espressione e il valore storico degli archivi online dei giornali non possono essere minate. Nemmeno se c’è stata una comprovata diffamazione con relativa condanna di un tribunale nazionale. Tradotto in soldoni: non è possibile rimuovere gli articoli dal sito Internet di una testata. La loro rimozione, secondo la Corte europea, sarebbe una misura “sproporzionata”. Anche se il tribunale nazionale lo ha già giudicato diffamatorio. A questo punto la domanda nasce spontanea: quale sarebbe, allora, il “giusto mezzo” tra tutela della reputazione e libertà di espressione? Per la Corte europea basta una correzione all’articolo incriminato. Una sorta di postilla, una nota, un commento che avverta che quel contenuto è stato giudicato diffamatorio da un tribunale.
In un modo o nell’altro, la sentenza contro il ricorso presentato dai due avvocati polacchi, sembra comunque destinata ad avere un suo peso. Almeno in teoria, infatti, le decisioni della Corte europea dovrebbero essere vincolanti per gli Stati appartenenti alla Convenzione europea per i diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu).
Tuttavia l’articolo 10 della stessa Convenzione lascia spazio all’interpretazione e alla discrezione dei giudici. Certo, la libertà di espressione è chiaramente salvaguardata. Per capirci, il primo comma afferma che ogni persona ne ha diritto. E che “tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera”. Tuttavia il seconda comma specifica: “L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge”. Le quali sanzioni “costituiscono misure necessarie” per garantire, tra le altre cose, “la protezione della reputazione o dei diritti altrui”.
Quindi trovare un equilibrio “stabile” tra la libertà di espressione e il rispetto della privacy risulta alquanto arduo. La situazione si complica ulteriormente se si pensa anche al diritto all’oblio. Parliamo della facoltà a non restare indeterminatamente esposti ai danni che la reiterata pubblicazione di una notizia può arrecare all’onore e alla reputazione. Tale diritto sembra essere teoricamente riconosciuto. Ma nei fatti non lo è. La Corte di Cassazione in Italia, anche prima della sentenza della Corte di Strasburgo, si è espressa a favore del diritto di informazione ordinando una aggiornamento costante delle notizie, soprattutto quelle riguardanti la cronaca giudiziaria (sentenza n. 5.525 del 2012).
Anche per i giudici di legittimità italiani la “completezza storica” va salvaguardata. Quindi un articolo, potenzialmente “infamante”, anche se datato, non va eliminato. Ma, se è il caso, va aggiornato, previa richiesta dell’interessato. I giudici di legittimità hanno sottolineato che «va garantito la contestualizzazione e l’aggiornamento delle notizie. In quanto la situazione descritta all’origine può cambiare o mutare completamente».
Il tutto senza alcuna censura. Basta una nota, un link, o una qualche riga di implementazione del testo originario. Spetta poi agli editori decidere quale sistema adottare. Anche l’Autorità per la privacy si è espressa nella stesso modo con due provvedimenti simili: il n. 434 del 20 dicembre del 2012 e il n.31 del 24 gennaio del 2013.
Ma il diritto all’oblio si scontra anche con l’estrema fluidità della rete che non dimentica mai nulla. Ormai le notizie viaggiano indisturbate tramite link su Facebook, Twitter, blog e vengono riprese dagli stessi giornali. Di conseguenza anche la correzione delle notizie presenti nell’archivio storico di un quotidiano non garantisce che tutti gli altri “cloni” della news stessa abbiano avuto lo stesso trattamento.
Logica vuole, a questo punto, che riuscire nell’intento di rendere gli articoli sempre aggiornati sia una traguardo a dir poco arduo da raggiungere. «Dio perdona, la rete no», affermò una volta il Commissario europeo per la privacy ed il trattamento dei dati personali, Viviane Reding. Dello stesso parere è stato Vint Cerf, informatico statunitense, conosciuto come uno dei padri di Internet. «Non potete uscire di casa ed andare alla ricerca di contenuti da rimuovere sui computer della gente solo perché volete che il mondo si dimentichi di qualcosa. Non penso che sia praticabile», profetizzò Cerf.

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