Rupert Murdoch, editore e fondatore di News corporation e punto di riferimento dei media moderni, lo aveva detto: «L’era attuale di internet, dove l’informazione giornalistica viene data gratis, presto sarà finita». Era la primavera del 2009. Sono passati tre anni e il dibattito, soprattutto in Italia, è ancora aperto.
Ma da gennaio 2013 arriverà la svolta e, secondo quanto risulta a Lettera43.it, si smetterà di parlarne solamente. Il motivo? Semplice: dall’inizio del prossimo anno un paio di giganti delle news italiane cominceranno a fare sul serio, facendosi pagare l’informazione online. Corriere della Sera (Rcs Mediagroup) e La Repubblica(gruppo L’Espresso) hanno deciso di passare dalle chiacchiere ai fatti. E potrebbero essere seguiti presto dal Sole24Ore e da La Stampa.
Chi da gennaio digiterà Corriere.it (diretto da Ferruccio de Bortoli) eRepubblica.it (la filiazione del giornale di Ezio Mauro, diretta da Vittorio Zucconi con Giuseppe Smorto), dovrà aver pagato un abbonamento per accedere a quasi tutti i contenuti online, con la possibilità di leggere sul web anche l’edizione cartacea.
Il prezzo, secondo quanto appreso da Lettera43.it, è ancora in via di definizione, così come la quantità di articoli al mese fruibile in forma gratuita. Il modello è quello dei paywall, ovvero quello dei giornali online in abbonamento con modalità di pagamento differenti (a seconda di quanto l’utente utilizza), insieme con una parte che resta, comunque, gratis.
La strategia di Rcs Mediagroup e del gruppo L’Espresso non è originale. Sono stati gli americani i primi a buttarsi nel business del pagamento delle notizia online, seguiti in Europa da inglesi e tedeschi con in testa il gruppo Axel Springer, l’editore di Die Welt e Bild.
La strategia è cercare nuovi ricavi in Rete per arginare il crollo della pubblicità: solo negli Stati Uniti si sono persi 35 miliardi di investimenti su carta dal 2008 al 2011, secondo dati di Newspaper association of America (Naa).
In Italia l’andamento pubblicitario è simile: il mercato degli annunci sui giornali è in contrazione del 10% in media all’anno dal 2008, mentre sul web la pubblicità sale nello stesso periodo a un ritmo medio del 14% all’anno, secondo dati Nielsen.
La strada per recuperare margini è in salita per gli editori. Tanto che, per ora, in America i casi di successo si contano sulle dita di una mano e i guadagni online non coprono ancora i mancati ricavi da pubblicità cartacea.
Secondo l’analisi di Naa, a fine 2011 i giornali che hanno avuto il risultato migliore sono stati tre: il Wall Street Journal – a pagamento dal 1996 – che costa nella versione completa (online più digitale derivato dalla carta) 5,27 euro a settimana e ha più di 500 mila abbonati.
Segue il New York Times – online da marzo 2011 – con 380 mila paganti sul web contro le 800 mila copie vendute in edicola. L’abbonamento completo costa 35 dollari al mese e dà l’accesso gratuito anche alla versione digitale del giornale stampato su carta.Il terzo caso di maggior successo negli Usa – sempre secondo Naa – è quello del Boston Globe, che a marzo 2012 in poco più di un anno di attività e al costo di 3,99 dollari a settimana, ha messo insieme solo 18 mila abbonati online, a fronte di 200 mila lettori che vanta per l’edizione cartacea.
Dall’America all’Europa, le cose non sono molto differenti. Anche qui i casi di successo sono rari. Il quotidiano finanziario inglese Financial Times è il numero uno del settore con oltre 600 mila abbonati all’edizione digitale, secondo i dati al primo semestre 2012. Ft offre due tipi di abbonamento online: 7,99 euro e 5,75 euro al mese a seconda della quantità dei contenuti e dei supporti su cui si vogliono leggere. L’editore sta valutando una formula di pay-per-article, con il pagamento di pochi centesimi ad articolo, che si affianchi a quella del paywall.
E poi c’è il modello digitale di Bild, Handelsblatt e Die Welt della tedesca Axel Springer: come ha spiegato in un’intervista a Lettera43.it Giuseppe Vita – presidente del comitato di sorveglianza – il peso della Rete nei ricavi della casa editrice è passato dal 4% del 2004 al 33,9% del luglio 2012, con l’obiettivo di raggiungere il 50% entro il 2015.
Per arrivarci, una delle strade è quella del pagamento anche per altri contenuti, per esempio le immagini, e non solo articoli. Ma un’altra guerra da vincere a cui i tedeschi tengono molto è quella contro Google e gli altri aggregatori di notizie. La crociata è partita dalla Germania nel 2010 con un’iniziativa giudiziaria della Federazione tedesca degli editori di quotidiani (Bdzv) e dell’Associazione tedesca degli editori di magazine (Vdz) contro il gigante dei motori di ricerca. Adesso anche i giornali francesi sono intenzionati a far valere i propri diritti editoriali. E i tempi sembrano essere maturi.
L’intento è replicare quello che è già realtà nel Regno Unito, dove Newspaper licensing agency ha iniziato a chiedere soldi agli aggregatori di notizie per la consultazione degli estratti online degli articoli a pagamento dei quotidiani.
La differenza però è che in Germania e anche in Francia si sta pensando di farsi pagare una commissione non solo sui servizi che gli editori offrono in abbonamento, ma anche per quelli gratuiti rilevati da Google.
Il governo guidato da Angela Merkel ha sostenuto fin dall’inizio la causa degli editori tedeschi perché la considera una battaglia giusta per preservare occupazione e ricchezza nel Paese.
Su questa linea si è schierata il ministro francese all’Innovazione e all’Economia digitale, Fleur Pellerin, che ha dichiarato il 22 ottobre 2012 al quotidiano Le Figaro che questa guerra contro gli aggregatori va combattuta tutti insieme in sede europea. Ma la manovra europea spaventa il motore di ricerca americano, che ha già pronto il contrattacco. Così i vertici dell’azienda di Mountain View che dà lavoro a 53.500 persone nel mondo, secondo i dato del terzo trimestre 2012, hanno già minacciato di bannare – ovvero di oscurare dal web – i siti dei giornali francesi se mai una legge del genere venisse approvata.
Il braccio di ferro, dunque, è già cominciato. La domanda a cui gli editori in Europa devono rispondere è semplice: può sopravvivere un quotidiano digitale senza la collaborazione del più importante motore di ricerca del mondo? Dall’altra parte dell’oceano qualcuno ha già risposto con un rotondo sì.
Si tratta dell’Associazione nazionale dei giornali brasiliani, 154 membri che valgono il 90% della diffusione, che ha già abbandonato Google news perché non paga i contenuti che aggrega e porta via traffico invece di farlo arrivare ai giornali. «Stare con Google news non ci aiuta a crescere nel traffico digitale», ha detto Carlos Fernando Lindenberg Neto, presidente dell’associazione, per motivare questa scelta. Chissà se in Europa gli editori avranno altrettanto coraggio.
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