Lo stato spende poco meno di tre miliardi per l’industria culturale e delle telecomunicazioni, ma manca un progetto complessivo e molto poco viene speso per l’innovazione. Sono i principali risultati del primo studio analitico condotto in Italia sugli investimenti pubblici nei settori dell’industria culturale (televisione, radio, cinema, spettacolo, editoria e telecomunicazioni) da un gruppo di ricerca della Fondazione Rosselli che verrà presentato domani a Roma, all’ottavo Summit sull’industria della comunicazione.
Dei 2.972 milioni di finanziamenti pubblici totali del 2009, il 57% è costituito dal canone per la Rai e da i altre convenzioni del servizio pubblico televisivo. I restanti 1.273 milioni sono spesi per la lirica, il cinema, il teatro e gli altri spettacoli dal vivo (629 milioni); per l’editoria, cioè per i quotidiani, le riviste e i giornali locali (402 milioni); per le tv e radio locali (135); infine, per le infra-strutture di banda larga per contrastare il divario digitale (77 milioni erogati con i bandi di gara del 2009).
In Italia, un Paese che viene considerato un faro di cultura a livello internazionale, la ricerca illustra una situazione abbastanza confusa di contributi molto frammentati, erogati in base a leggi e norme che si sono stratificate nel tempo. Sono tre i principali organi istituzionali deputati a erogare i contributi: il ministero dei Beni culturali per il cinema e lo spettacolo, il ministero per lo Sviluppo economico per le televisioni e le radio, il dipartimento per l’Informazione e l’editoria della presidenza del Consiglio dei ministri. La quasi totalità dei contributi va a finanziare, direttamente o indirettamente, gli attori della filiera, mentre sono quasi del tutto assenti gli investimenti per progetti innovativi. (CORRIERE ECONOMIA)
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