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Contratto nazionale FNSI – FIEG. Accordo in dirittura di arrivo?

Il contratto nazionale dei giornalisti, Fnsi-Fieg, (l’ultimo, del 2009, è scaduto il 31 marzo del 2013), è arrivato a un punto decisivo per il rinnovo. Quattro (più uno) i nodi che potrebbero far andare in porto o far fallire la trattativa: il lavoro parasubordinato, la ripresa dell’occupazione, l’aliquota straordinaria per l’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani (Inpgi), l’aumento delle retribuzioni. Il “più uno” è la cosiddetta “ex fissa”. Il rinnovo contrattuale non sarà quella svolta verso la multimedialità e la crossmedialità. Su questo punto la delegazione Fnsi si è in verità molto spesa, un anno fa, in più riunioni di un gruppo di lavoro bilaterale propedeutico alla trattativa vera e propria dove gli editori avevano dal loro canto schierato i rappresentanti di quattro grandi gruppi: Caltagirone, Espresso-Repubblica, Mondadori e Rcs. Inaccettabili, ancora di più in un periodo in cui tante redazioni sono già segnate da stati di crisi, contratti di solidarietà, cigs, e conseguente contrazione delle retribuzioni di fatto dei colleghi. L’occasione dell’innovazione non è stata però persa.
Quello che invece sarà, se ci sarà, il possibile nuovo Cnlg, è un accordo di tenuta del sistema, come è stato definito, che punti alla salvaguardia del nostro Istituto di previdenza, attraverso risorse aggiuntive a carico degli editori e politiche di ripresa dell’occupazione, che apra le porte in maniera più decisa ai colleghi parasubordinati, che porti un aumento nelle retribuzioni base, soprattutto di chi oggi guadagna meno. E, infine, che affronti e superi il fallimento della “ex fissa”.

Il Lavoro subordinato è l’elemento di vera novità del rinnovo contrattuale. E pure quello più contestato, per le grandi (e giustificate) aspettative riposte sul punto dai colleghi freelance. Tutti coloro che collaborano di fatto in forma continuativa e coordinata con le redazioni (anche se costretti ad aprire partite Iva), garantendo in molti casi un flusso consistente (e irrinunciabile) di lavoro e di articoli, e che hanno diritto a un rapporto contrattuale definito e a garanzie certe: compensi mensili inseriti in un cedolino con tracciabilità dei pezzi scritti, versamenti previdenziali, anche complementari nel fondo giornalisti, polizza infortuni, il diritto alla firma, nessun vincolo di esclusiva, e altri su cui si sta discutendo, come la Casagit.

Quando, dunque, si ha diritto a vedersi riconosciuto lo status di cococo? Le variabili, dipendenti tra loro, sono due: un compenso minimo annuo pari a 3 mila euro lorde a cui corrisponde una prestazione media mensile calcolata in numero di articoli (diversi, anche per lunghezza, tra differenti mezzi di informazione). Facciamo un’ipotesi, verosimile ma solo esemplificativa: poniamo che il collaboratore di un quotidiano in un anno scriva una media di dieci articoli al mese, di lunghezza (sempre media) di 1.500 battute. In questo caso dovrà essere necessariamente inquadrato come cococo, e riceverà un compenso annuo lordo appunto di almeno 3 mila euro. Se supererà questa media, il suo guadagno ovviamente aumenterà, con un “moltiplicatore” che potrebbe non essere perfetto: ipotizziamo che ogni altri dieci articoli medi al mese si aggiungano 2 mila euro l’anno. Questo significa che chi oggi scrive due pezzi al giorno, diciamo 40 o 50 in un mese (tipicamente un collaboratore locale), arriverebbe a una retribuzione da 9 mila o 11 mila euro l’anno: più di quanto prende come minimo contrattuale un corrispondente articolo 12 di fascia alta (fatti salvi ulteriori compensi a pezzo, comunque da contrattare tra le parti). Un elemento che potrebbe (dovrebbe) indurre gli editori a stabilizzare il collaboratore, assumendolo.

Per i periodici, i numeri sono inevitabilmente diversi: molti meno articoli ma più lunghi (l’ipotesi è tra 2 e 3 al mese per i settimanali, da 1.800 battute medie), per arrivare alla soglia dei 3 mila euro annui, con “moltiplicatore” da individuare.

Qualcuno ha voluto calcolare il compenso unitario per articolo. Comprensibile, ma fuorviante (in alcuni casi, volutamente…). Perché la logica è diversa: non è un tariffario, è la retribuzione di una prestazione, fissata in un minimo contrattuale. Per i lavoratori dipendenti, l’unità di misura è l’ora lavorata, per chi non ha, e non deve avere, vincoli di orario, di subordinazione, di rispetto delle gerarchie redazionali, l’unità è il numero di articoli scritti. Altrimenti, si diventa appunto subordinati.

Eppure, quanti cococo siedono al nostro fianco nelle redazioni, e magari non scrivono pezzi ma lavorano come un giornalista assunto qualunque? È vero. Ma per loro nessun accordo potrebbe tenere: sono e restano abusivi e hanno diritto all’assunzione da articolo 1. Operazione non semplice, in tempi di crisi. Ma che alimenta un altro punto del rinnovo contrattuale.

Il fenomeno degli ammortizzatori sociali
Con oltre 2 mila posti di lavoro spariti nei cinque anni dal 2009 e il 2013, di cui circa 1.650 solo nelle aziende Fieg, e un ricorso massiccio agli ammortizzatori sociali che sembra non avere fine, nessuno può dubitare che l’obiettivo vero, anche e soprattutto per tenere in piedi il sistema di welfare dei giornalisti, deve essere rimettere in moto l’occupazione, puntando a una ripresa delle assunzioni. In particolare, la stabilizzazione dei precari, con regolarizzazione dei falsi cococo o partite Iva, l’ingresso di giovani e il ritorno al lavoro dei tanti cinquantenni disoccupati per colpa della crisi. Il rinnovo contrattuale può porre alcune condizioni per favorire l’occupazione, dalla possibilità – ancora tutta da verificare – di introdurre l’apprendistato conciliandolo con il praticantato per i giovani fino a 29 anni, fino a ipotesi di minimi contrattuali ridotti per stabilizzazioni e assunzioni di disoccupati, come è stato fatto anche in passato. Uno sforzo non potrà che arrivare, ancora una volta, dall’Inpgi, che nel rinnovo biennale economico di tre anni fa aveva varato un’importante manovra di sconti previdenziali per le assunzioni a tempo indeterminato. Nonostante le difficoltà contabili, l’Istituto potrebbe ipotizzare un nuovo, coraggioso intervento, con aliquote ridotte variabili per contratti a tempo indeterminato (più basse) ma anche a termine. Senza nuova occupazione e un turn over che torni positivo, del resto, nessuna aliquota aggiuntiva da sola sarebbe in grado di garantire la stabilità dell’Inpgi nel medio-lungo periodo: i sacrifici sostenuti dall’Istituto sarebbero insomma una sorta di investimento sul futuro.

Una parte importante deve però arrivare soprattutto dalle risorse economiche del fondo straordinario governativo da 120 milioni in tre anni di cui si attendono a brevissimo i decreti con i regolamenti attuativi. E che, nelle previsioni, dovrebbero andare a favorire in particolare l’assunzione di giovani.

 L’INPGI – Sempre dal fondo straordinario governativo si attendono risorse per gli ammortizzatori sociali, in particolare i prepensionamenti, collegati a nuove assunzioni. Ma questo non sarà minimamente sufficiente a dare vero ossigeno alle casse dell’Inpgi, che allo squilibrio palese tra uscite (che sono spese per pensioni e mancato introito per contribuzioni) e scarsissimi ingressi (a retribuzioni ben più basse) ha aggiunto in questi anni il costo per cigs, contratti di solidarietà e disoccupazione. Ecco perché è indispensabile introdurre con il rinnovo contrattuale un’aliquota straordinaria (intorno all’1%) a carico degli editori, destinata in maniera specifica agli ammortizzatori sociali, il cui importo dovrebbe tornare – una volta terminata l’emergenza – nelle buste paga dei colleghi.

LE RETRIBUZIONI – Una percentuale simile, intorno all’1%, dovrebbe essere destinata agli aumenti retributivi, con un meccanismo da definire che dovrebbe favorire chi ha minimi contrattuali più bassi. Non saranno grandi cifre, per un contratto che ha altri obiettivi e che concentra il costo pagato dagli editori su altri capitoli. Ma è comunque anche simbolicamente importante non trascurare – pure in tempi di crisi – la dinamica salariale, che ha effetti su tutti gli istituti contrattuali e sulla contribuzione previdenziale.

IL FALLIMENTO DELL’”EX FISSA” – Uno dei capitoli che più risorse, economiche e di tempo, sta impegnando è quello della cosiddetta “ex fissa”. Che pure andrebbe considerato collaterale e aggiuntivo rispetto al rinnovo contrattuale. Parliamo di un istituto creato 30 anni fa, in tempi di vacche molto grasse, che rimpiazzava l’indennità sostitutiva del preavviso prevista per chi andava in pensione e fino ad allora pagata direttamente dalle aziende, con un meccanismo che nasceva già malato, oltre che iniquo per definizione. Gli editori versano infatti in un fondo l’1,5% del monte retributivo di tutti i giornalisti dipendenti a tempo indeterminato, cioè non in maniera individuale e identificabile per posizione, e questa massa di denaro serve a pagare l’ex fissa di chi, al momento della pensione, ne ha diritto, avendo lavorato per oltre 15 anni per la stessa azienda (o anche meno, dopo una certa età). L’aberrazione del meccanismo prevedeva il calcolo della somma da pagare in mensilità (variabili per qualifica: da 7 a 13) relative alla retribuzione del penultimo mese di lavoro. Oltre a contemplare pure la maturazione (e il pagamento) di più di una “ex fissa” nell’arco della vita lavorativa. Per farla breve, abbiamo finora pagato tutti, ma non tutti hanno conquistato il diritto a ricevere indietro qualcosa. Io, per esempio (scusate la citazione personale), in 28 anni di contratti di lavoro, non ho mai raggiunto i 15 anni consecutivi in una sola azienda. E come me, immagino, molti molti altri colleghi. Che pure hanno contribuito ad alimentare il fondo ex fissa.

Ebbene: questo fondo è fallito, com’era prevedibile, sotto l’urto fatale dell’enorme aumento di pensionamenti (e prepensionamenti) degli ultimi anni. È fallito nel senso che non è solo vuoto, ma ha già debiti per quasi 100 milioni di euro, con oltre mille colleghi in attesa di ricevere quanto previsto e la prospettiva di vedere qualcosa anche tra dieci anni e più.

Di fronte a questo scenario, la prima reazione sarebbe netta: chiudiamo il fondo, e non se ne parla più. In definitiva, è un debito degli editori, di cui l’Inpgi è solo il tramite per i pagamenti. Chi ha conquistato il diritto “perfetto” (i 15 anni e l’accesso alla pensione), potrebbe quindi rivalersi direttamente sul proprio editore (almeno quelli la cui azienda non è nel frattempo fallita, e non sono pochi), per tutti gli altri ancora al lavoro l’istituto contrattuale verrebbe meno, liberando l’1,5% di risorse (anche se difficilmente gli editori cederebbero a riconoscere l’aliquota per intero, dovendo pagare a proprio carico le ex fisse in attesa…). Una ipotesi di disimpegno sinceramente improponibile e inaccettabile, per il Sindacato e per la categoria. Anche perché una spesa immediata di milioni per alcuni editori rappresenterebbe un onere elevato, che cercherebbero di recuperare magari con un maggior ricorso agli ammortizzatori sociali. La soluzione su cui si potrebbe trovare l’intesa con gli editori, e su cui mille strali sono già stati lanciati, richiede sacrifici e passi indietro da parte di tutti, in un equilibrio imperfetto ma comunque meno iniquo rispetto al meccanismo di base della ex fissa. Perché – diversamente da prima – garantirebbe comunque qualcosa a tutti.

Secondo Siddi, “i sentieri che possono portare a un accordo con caratteri di essenzialità  e di avanzamento sono stretti, ma le rappresentanze dei giornalisti e degli editori devono assumersi le responsabilità  di percorrerli fino in fondo, anche innestando azioni positive con il governo per l’attuazione di quanto previsto dal fondo straordinario per l’editoria”. Il segretario Fnsi ha detto che “le fughe dalla realtà  possono essere stimolanti per chi nei due campi avrebbe l’aspirazione a bloccare tutto. Senza contratto rinnovato, aperto finalmente a una regolamentazione del lavoro autonomo, indirizzato a promuovere e stimolare nuova occupazione in un patto generazionale vitale, attento a incidere subito per la salvaguardia degli istituti di protezione sociale e di previdenza, ci sarebbero molti rischi di instabilità  e grave incertezza”. “E chi, tra gli editori, – ha proseguito – immagina di poter fare a meno del contratto subirebbe rapidamente effetti dirompenti dalla rottura uno dei pochi punti regolatori della stessa concorrenza del mercato editoriale che sono assicurati dalla convenzione collettiva del lavoro”.

“Oggi – ha concluso Siddi – non è fuori luogo l’appello a stringere i tempi e non lasciare nulla di intentato nell’illusione che tutto possa fermarsi senza che nulla cambi. Con una situazione del genere il cambiamento potrebbe essere amaro per tutti”. Il presidente Fnsi Giovanni Rossi ha sottolineato “l’impegno particolare nel corso della trattativa per il tema del lavoro autonomo, considerato dal sindacato una delle priorità su cui lavorare, rispetto al quale la legge sull’equo compenso pone ad entrambe le parti scadenze ravvicinate, tenendo conto che la legge prevede la decadenza della commissione (convocata per il 26 maggio) a 36 mesi dall’approvazione della legge stessa”. Il sindacato dei giornalisti del Trentino Alto Adige sostiene gli sforzi della Fnsi per il rinnovo del contratto nazionale.

Fonte parz: www.blitzquotidiano.it

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