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CON PELUFFO SI RIVEDE LA LUCE

“Nessuna riforma si fa nei cimiteri”, dice con un certo sarcasmo Vincenzo Vita. Ergo servono “regole e certezze”. Per il futuro e per il pregresso. All’osso la telenovela sui fondi pubblici per l’editoria si riassume nella battuta del senatore del Pd membro della Commissione cultura.
Ora per fortuna che al dipartimento in questione è tornato un esperto del settore, Paolo Peluffo, che ha anche assicurato che “qualcosa si farà”, e che presto sarà audito dalla commissione cultura sia della Camera sia del Senato, forse addirittura in seduta congiunta, sulla vexata quaestio.
E ieri, durante una puntata di “Agorà”, il programma mattutino su Rai Tre condotto da Andrea Vianello il problema è stato completamente sviscerato alla presenza di esperti del settore proprio come Vincenzo Vita. O come il giornalista Marco Cobianchi di “Panorama”.
Ma anche di diretti interessati come il direttore editoriale de “Il manifesto” Gabriele Polo e il nostro direttore Arturo Diaconale. E, per una volta, persino un dipietrista doc come Felice Belisario dell’Idv ha dovuto convenire che “non si possono ammazzare decine di testate cambiando le regole durante il gioco”, frase proferita proprio alla fine dei 34 minuti e rotti di dibattito dedicati a questi benedetti fondi pubblici.
D’altronde a metà dicembre uno dei blogger più noti de “Il Fatto quotidiano”, Vincenzo Iurrillo, aveva rotto ogni tabù con un post pubblicato sul frequentatissimo sito del giornale di Travaglio e Padellaro, il cui titolo non dava adito a equivoci: “Ma io difendo i fondi pubblici per l’editoria”.
E anche i commenti degli aficionados del quotidiano che ha fatto del giustizialismo uno degli ingredienti per vendere copie in più non erano così negativi. Secondo Iurrillo, infatti, “a chi mi snocciola esempi di sprechi, inefficienze e clientele dei ‘quotidiani fantasma’ ingrassati sulle spalle dei contribuenti solo per distrarre fondi pubblici a fini privati o assumere figli e parenti e amici e amiche dei potenti di turno, senza vendere uno straccio di copia, io rispondo che non si combatte uno scandalo di partite truccate abrogando il campionato di calcio”.
Nella premessa del post, con grande onestà intellettuale, Iurrillo ammetteva pure che poteva sembrare “che parli per fatto personale.” “Forse perché sono diventato giornalista professionista in un quotidiano che ne usufruiva – precisava – forse perché grazie a quei fondi venni assunto con un regolare contratto giornalistico a tempo indeterminato, e forse anche perché conosco decine di validissimi colleghi, più bravi di me, che andrebbero in mezzo a una strada se venissero abrogati”.
Poi Iurrillo metteva giù la vera posta in gioco: “nel settore dell’informazione non sono in vigore le regole del libero mercato. Esistono posizioni dominanti, monopoli camuffati e tollerati, grandi gruppi imprenditoriali che agiscono in più campi e che possiedono, anche, testate in perenne perdita, il cui unico scopo è quello di difendere gli interessi dell’editore, i cui veri guadagni, però, sono altrove.
I fondi pubblici per l’editoria cooperativa e di partito – e qui cito il mio collega de “Il Fatto Quotidiano” Eduardo Di Blasi – servono a difendere la voce di chi non troverà mai spazio sui media governati dai grandi interessi. In nome del pluralismo”. Durante “Agorà”, ieri mattina, si sono sentite argomentazioni analoghe da parte di Polo e di Diaconale, due direttori che di più differenti matrici politiche e culturali non potrebbero essere: un comunista e un liberale, in pratica.
In particolare il nostro direttore ha ricordato a chi oggi si fa paladino dell’anti politica, spesso a spese di chi con le ruberie dei partiti non c’entra niente, che “la legge che attualmente eroga questi fondi fu pensata nel 1990 ed è stata più volte cambiata senza mai dare certezze e diritti a chi faceva i giornali veri”.
Spesso confondendo “i giusti e i peccatori”. Vincenzo Vita ha anche ricordato come la “ratio” della legge del 1990 fosse stata quella di compensare le enormi facilitazioni che la legge Mammì aveva dato al duopolio tv Rai-Mediaset, quello che Pannella chiama Raiset. Una legge che se è vero che si limitava a fotografare l’esistente, è anche vero che non si è posta il problema della catalizzazione di tutto il mercato pubblicitario sul mezzo televisivo, con le briciole lasciate ai giornali più grandi e niente a quelli più piccoli.
Come “il manifesto” e “l’Opinione”, per esempio. Ma anche come quelli di partito: “Liberazione”, “Il Secolo d’Italia”, “La Padania”, “l’Unità”, il vecchio “Avanti!” e così via. Fingere oggi che quella legge fosse stata figlia di madre e padre ignoti è la solita ipocrisia della politica italiana.
E bene ha fatto il segretario della Fnsi Franco Siddi a lanciare solo pochissimi giorni orsono l’ennesimo appello trasversale a tutti i partiti per non chiudere tutte queste testate. Sottolineando un paradosso: con 4 mila persone per strada si spenderebbe forse di più in cassa integrazione che non erogando i fondi stessi.
Certo esiste il problema di scremare dai giornali che prendono fondi decine di pubblicazioni settoriali che si occupano di motori, religione, new age, chitarre, vela e altre cose del genere entrate nel giro anni fa grazie alle maglie larghe e alla poca chiarezza della legge, magari costituendosi come cooperative.
Ma esiste anche, ora che il “milleproroghe” è ritornato in Commissione, il fatto di ridiscutere se sia il caso di sanare cento milioni l’anno di multe per affissioni elettorali ai partiti politici di ogni colore, accumulate durante le continue competizioni elettorali del Bel Paese, o non sia piuttosto meglio destinare simili risorse proprio ai giornali che ora rischiano di chiudere.
Questo anche per sottolineare come uccidere il fondo dell’editoria sic et simpliciter appartenga a quella categoria dello spirito che è il dare in pasto ai militanti dell’antipolitica di bocca buona il contentino del “paga il giusto per il peccatore”.

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