Il sospetto è forte e pure fondato. Rischia la fine una storia lunga centoventisei anni. Esperti e studiosi di cose editoriali danno come prossima e possibile la fine di un quotidiano prestigioso carico di gloria. Il Mattino di Napoli, il giornale della città, dei napoletani e dei sudisti, fondato da Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao nel 1892. Ipotesi e previsioni decisamente sinistre trovano fertile terreno nei recenti accadimenti che si sono succeduti, rapidi e tempestosi, nella vita del Mattino.
Il cambio del direttore, rimosso dall’oggi al domani, spogliato all’improvviso dell’incarico, dopo averne messo in discussione, l’editore, le prerogative che derivano dal ruolo che occupava ed esercitava fino a pochi giorni prima. E prima ancora, l’annuncio del trasferimento della storica sede di via Chiatamone, un simbolo, il riconoscimento di un’identità, al Centro Direzionale. Ovvero al limite estremo della città, non lontano dallo scalo aereo di Capodichino.
Un segnale bruttissimo, pessimo, secondo l’interpretazione di ex autorevoli giornalisti del Mattino e di studiosi che si sono dedicati al fenomeno del giornale che non ha perso solo lettori in numero considerevole e preoccupante negli ultimi anni. Schiacciato evidentemente dalla concorrenza della televisione e del web, il venduto quotidiano è precipitato a 30mila copie. Il trasferimento annunciato della sede viene interpretato da osservatori esterni come l’anticamera della chiusura.
Il corpo redazionale si oppone con fermezza alla certezza del trasloco da via Chiatamone al Centro Direzionale, all’interno della Torre Francesco, di proprietà dell’editore del giornale Francesco Gaetano Caltagirone.
I redattori hanno approvato all’unanimità “l’agitazione permanente”, mettendo nelle mani del Comitato di redazione tutti gli strumenti e le azioni idonee per combattere il provvedimento unilaterale dell’editore. I giornalisti del Mattino hanno appreso la brutta dolorosa novità dall’amministratore Massimo Garzilli, divenuto ormai anche lui storico nelle vicende degli ultimi quarant’anni del Mattino. Piange il cuore, amici lettori, al Direttore Porpiglia e a me che al Mattino abbiamo lavorato per decenni, parlare di questo argomento. Increduli, ne siamo addolorati e costernati. Sì, è così: è terribile dover registrare brutte notizie sul futuro immediato di un’azienda che ha fatto a lungo parte della nostra vita e di quella di tutti i napoletani buoni e sensibili.
Napoletani veri. Dio, come è ridotto il nostro caro Mattino, e dove rischia di finire.
Che ne sarà della storia che la sede di via Chiatamone testimonia del 1° maggio 1962? Si dice questo: un centro commerciale, chiamatelo pure ipermercato, andrà ad occupare il primo e il secondo piano dello storico edificio. Del Mattino non vi saranno più tracce, ad un passo dal mare, nel cuore della città; solo rimpianti e rabbia. Un passaggio non inatteso, perfino prevedibile, in funzione di quello che è stato il succedersi degli eventi dal 2009 ad oggi. Quell’anno segnato da tagli e ridimensionamenti dell’organico redazionale, che allora era di 100 giornalisti; 154 nel 1992. Ventiquattro (i migliori, le firme storiche) licenziati in blocco. Il crollo delle vendite è cominciato quel giorno. I poligrafici erano 298, una categoria praticamente sparita. Progressiva riduzione dei compensi, fino all’ultimo taglio del quindici per cento, ha provocato la sollevazione dei collaboratori. Lo sciopero proclamato dagli stessi è rimasto nella memoria di tutti. Anche come un pericoloso segnale. Come pure, anzi di più, i prepensionamenti recenti di firme storiche: Pietro Treccagnoli e Rosaria Capacchione, sì proprio lei, l’ex senatrice della Repubblica, costretta a vivere per anni sotto scorta perché minacciata dai camorristi del clan dei Casalesi, oggi collaboratrice di giornali online.
I conti del Mattino non tornano, ma l’annunciata cancellazione a fine anno della storica sede è una dichiarazione esplicita di harahiri. Un disegno non ancora del tutto comprensibile ai noi comuni mortali. Peraltro comune, assimilabile con quello del Messaggero. L’antica sede del quotidiano di Roma in via del Tritone trasformata in negozio di lusso. Caltagirone è l’editore anche del Messaggero, oltre a detenere la proprietà del Gazzettino di Venezia, Corriere Adriatico, Nuovo Quotidiano Puglia, e delle pubblicazioni distribuite gratis, Leggo, Metro e la Città. Forti preoccupazioni ha espresso sul trasloco della sede del Mattino la Federazione Nazionale della Stampa. Il Sindacato Unitario della Campania ha lanciato addirittura allarmi in più direzioni. Neppure uno raccolto dal sindaco Luigi de Magistris, da tempo in rotta con Caltagirone per la vicenda dell’ex Italsider.
“Un aggancio della storia del quotidiano con le esigenze estetiche in mutamento”, con queste parole Alessandro Barbano aveva presentato l’ultima riforma grafica del Mattino. Il nuovo look: titolazione più strillata, corpi più robusti. Una riforma che rende il Mattino identico al Messaggero. Partita la riforma, Alessandro Barbano è stato licenziato in maniera brusca dall’editore Caltagirone. I motivi, le ragioni del provvedimento improvviso? Barbano li ha spiegati nel suo ultimo editoriale dal titolo emblematico “Il coraggio dei moderati”. Al suo posto è stato chiamato Federico Monga, già suo vice e ex della Stampa. L’editoriale finale evidenzia la crisi del racconto della politica che diventa “manifestazione di forme retoriche e svuotate di contenuti”. Barbano non ha mai nascosto di non essere in sintonia con l’avanzare del populismo di Cinque Stella e Lega. L’editore gli avrebbe chiesto di essere cauto verso il nuovo Governo e di omologarsi con il Messaggero in tutto e per tutto. Troppo per Barbaro, una virata impossibile. Il giornalista leccese ha sempre dimostrato di voler mantenere l’indipendenza culturale sua e del Mattino, di non rinunciare alle firme esterne, e rifiutato condizionamenti provenienti dal Messaggero.
Si è battuto con energia contro le riduzioni del personale e soprattutto contro il trasferimento della sede. Una linea scomoda, che non stava più bene alle nuove esigenze dell’editore, che su Roma si batte a sua volta contro la costruzione eventuale del nuovo stadio a Tor di Valle e a favore degli interessi del suo gruppo immobiliare su Tor Vergata. Spigolosi i contrasti con il sindaco Virginia Raggi, targata M5S. Barbano guarda con occhio critico all’avanzata del populismo nel libro “Troppi diritti”, di recente uscita per Mondadori, in cui spiega “Il declino italiano a causa della deriva del dovere civico”.
di Franco Esposito
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