Categories: Giurisprudenza

Chattare con un nick riconducibile ad altri integra il reato di sostituzione di persona

Con la sentenza n. 18826 del 28 novembre 2012, ampiamente discussa in Rete, la Corte di cassazione affronta – come avvenuto ancora in pochissime occasioni – il rapporto tra il delitto di sostituzione di persona ed il mondo virtuale di internet. In particolare, una donna – partecipando con un nickname ad una chat di carattere erotico – aveva fornito agli altri utenti un numero telefonico cellulare, apparentemente proprio ma, in realtà, riferibile alla sua ex datrice di lavoro, con la quale aveva in corso una controversia civilistica; con la conseguenza che la seconda si era trovata a ricevere molte telefonate e messaggi sms, anche in ore notturne, da parte di uomini che – stante il tenore delle conversazioni via chat – la credevano disponibile ad incontri di natura sessuale.

La quinta sezione conferma la sentenza di condanna, ritenendo che, nel caso di specie, sia integrata la condotta di cui all’art. 494 c.p., ravvisabile in forza di un’interpretazione estensiva consentita ed alla luce del carattere plurioffensivo del delitto; nell’occasione, peraltro, la Corte analizza il rapporto tra partecipazione ad una chat line, uso di nickname e comunicazione di dati personali altrui (nella specie, il numero di telefono), verificandone la piena riferibilità anche ad una norma – il reato di sostituzione di persona – rimasta immutata dal 1930 ad oggi.

Di questo rapporto appare utile, di qui a poco, tracciare gli elementi più significativi.

LA SOSTITUZIONE DI PERSONA. RATIO ED EVOLUZIONE

La ratio dell’art. 494 c.p. è comunemente individuata nell’esigenza di tutelare la fede pubblica dalle frodi fondate sulla falsificazione dei tratti essenziali della persona, quali l’identità, il nome, lo stato o le altre qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici; condotte – residuali rispetto alle altre ipotesi di falso – che ledono la fiducia riposta dalla collettività non solo nella rispondenza del soggetto apparente a quello reale, ma anche nell’esatta riferibilità allo stesso di determinati caratteri, rilevanti nei rapporti sociali ed economici.

L’interesse pubblico, peraltro, non costituisce l’unico oggetto di questa tutela, invero rivolta anche ai privati nei cui confronti l’atto produce i propri effetti o viene fatto valere; in tal senso, dunque, anche la fattispecie in esame “beneficia” dell’interpretazione offerta dalla Corte di cassazione a Sezioni unite, in forza della quale «ai delitti contro la fede pubblica deve riconoscersi, oltre ad un’offesa alla fiducia che la collettività ripone in determinati atti, simboli, documenti, etc. – bene oggetto, senza dubbio, di primaria tutela dei delitti in argomento – anche una ulteriore e potenziale attitudine offensiva, che può rivelarsi poi concreta in presenza di determinati presupposti, avuto riguardo alla reale e diretta incidenza del falso sulla sfera giuridica di un soggetto».

Al quale, pertanto, deve essere riconosciuta la qualità di persona offesa dal reato, tipica conseguenza processuale del carattere plurioffensivo delle fattispecie.

Queste considerazioni generali risultano, poi, particolarmente significative nel caso di rapporti instaurati via internet, nei quali l’alterazione dell’identità (come l’attribuzione di falsi “elementi distintivi”) è molto semplice, frequente e variamente motivata; ed invero, come spesso serve soltanto a farsi accettare in un qualche consesso, tipo social network, così talvolta costituisce lo strumento per la consumazione di truffe o di altri delitti, specie di natura diffamatoria. Reati informatici, se non addirittura “cibernetici”, la cui incidenza pregiudizievole diretta nella sfera di terzi può risultare assai concreta; ciò alla luce dell’enorme diffusività dei “prodotti” in Rete, da chiunque realizzati, e del carattere talvolta “perpetuo” di una qualsiasi informazione lì apposta, come tale difficilmente rimovibile nel tempo .

Ciò premesso, occorre però domandarsi – e così fa la quinta sezione – se questa ”alterazione” soggettiva compiuta tramite internet, compresa la forma limite del c.d. furto di identità, possa esser sanzionata in virtù della sola lettera dell’art. 494 c.p.

La risposta fornita è affermativa, quantomeno con riguardo al caso oggetto della sentenza.

In particolare, la Corte premette che il «rivoluzionario» sviluppo tecnologico degli ultimi anni ha reso possibili nuove forme di aggressione ai beni tutelati, per affrontare le quali – ed in attesa di norme ad hoc – bisogna verificare eventuali percorsi di interpretazione estensiva, capaci cioè di adeguare l’ambito di operatività delle tradizionali fattispecie; percorsi che non ampliano il contenuto effettivo della disposizione (ciò che è vietato dall’art. 14 disp. prel.), ma consentono di inserirvi ipotesi alla stessa estranee solo per «manchevoli espressioni letterali, che non potevano essere previste dal Legislatore nel momento storico in cui la disposizione venne emanata». Sul solco di questa premessa, la Corte quindi afferma che la partecipazione ad una chat line con l’impiego di un nickname riconducibile ad altra persona, in uno con la divulgazione del numero di telefono di questa, spacciandolo come proprio, ben integra – nel senso della citata interpretazione estensiva – un’ipotesi riconducibile all’art. 494 c.p.

Ed è questa parte della motivazione, vero perno della pronuncia, che occorre adesso fare riferimento.

SOSTITUZIONE DI PERSONA, EMAIL E CHAT SOTTO MENTITE SPOGLIE. LA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ. Le precedenti pronunce di legittimità

Il ragionamento sviluppato dalla Corte muove dall’analisi di due precedenti di legittimità – tra i pochissimi in materia –, nei quali un soggetto aveva creato ed utilizzato un account di posta elettronica riferibile ad altra persona, che da ciò aveva ricevuto un evidente danno; due casi – ed uno in particolare – facilmente assimilabili a quello oggetto della sentenza n. 18826 del 2012.

Nel primo, in particolare, un uomo aveva utilizzato i dati anagrafici di altro per iscriversi ad un sito di aste online, così riuscendo ad aggiudicarsi oggetti che, poi, non aveva pagato; dal che le ricerche da parte del venditore “mancato”, inevitabilmente conclusa con l’identificazione di un soggetto – il formale acquirente – del tutto estraneo alla vicenda. Orbene, nell’occasione la Corte ha evidenziato che la partecipazione ad aste in internet con l’uso di uno pseudonimo presuppone necessariamente che a questo «corrisponda una reale identità, accettabile online da parte di tutti i soggetti con i quali vengono concluse compravendite»; ciò, all’evidente scopo di tutelare le controparti a fronte di eventuali inadempimenti. Qualora poi – come nel caso in esame – questa identità sia sì reale, ma riferibile a persona diversa dal titolare apparente, ben può dirsi integrato il delitto di sostituzione di persona; l’autore, infatti, induce in errore i partecipanti all’asta nei confronti dei quali le false generalità sono declinate e, al contempo, danneggia colui le cui vere generalità sono abusivamente spese, che risulta formale artefice della truffa.

Nel secondo caso richiamato, particolarmente simile al nostro, un uomo aveva creato un account di posta elettronica intestandolo ad una donna, da lui conosciuta, e se ne era servito per intraprendere molteplici relazioni verbali a nome di lei; inoltre, lo stesso aveva fornito il numero di telefono dell’altra, poi raggiunta da numerose chiamate a scopo sessuale. Orbene, nell’occasione la Corte – ricordato che la pubblica fede «può essere sorpresa da inganni relativi alla vera essenza di una persona o alla sua identità o ai suoi attributi sociali» – ha evidenziato che questi possono esser individuati nel nome (qui riprodotto pressoché interamente nel falso indirizzo e-mail), nel sesso (specie se diverso da quello della maggior parte degli interlocutori) e nella dichiarata disponibilità ad incontri di natura sessuale; fingersi altri con riguardo a questi caratteri integra senza dubbio il delitto di cui all’art. 494 c.p., allorquando – come nel caso in esame – taluno sia stato indotto in errore (gli utenti maschi della Rete, alla ricerca di “incontri”…) e talaltro abbia ricevuto un evidente danno (la donna “sostituita”, fatta oggetto di ripetute richieste di appuntamenti intimi).

In entrambi i casi, dunque, la Corte si è avvalsa di un’operazione ermeneutica estensiva per inserire nella norma un riferimento – quello all’account di posta elettronica – che di certo non poteva esser previsto nel 1930; operazione del tutto lecita e condivisibile, con la quale la ratio dell’art. 494 c.p. è stata ulteriormente rafforzata – così come il bene giuridico ulteriormente tutelato – a mezzo di un semplice “aggiornamento” tecnico della fattispecie medesima, resosi opportuno a fronte di nuove forme di aggressione.

Oltre a queste due, espressamente richiamate nella sentenza n. 18826 del 2012, appare infine di interesse citare una terza pronuncia della Corte, che ha analizzato la questione sotto una diversa prospettiva.

Nel caso in questione, l’imputato – senza alcun consenso ed al fine di procurarle un danno – aveva aperto a nome di una donna addirittura un sito internet, nonché due indirizzi di posta elettronica, provvedendo anche ad iscriverla ad un sito di messaggeria erotica; per far ciò, l’uomo aveva fornito a quattro access providers molti dati personali della stessa (generalità, indirizzo, recapiti telefonici e di posta elettronica), necessari per iscriverla e, soprattutto, per ottenere gli “spazi” informatici richiesti. La vicenda, apparentemente simile a quelle prima esaminate, se ne distingue, però, perché qui l’agente aveva sì aperto a nome della donna vari “recapiti”, ma non li aveva poi utilizzati in conversazioni via web; in altri termini – e pur creandone, di fatto, tutte le premesse – non si era sostituito a lei e, pertanto, non aveva indotto in errore alcun utente della Rete in ordine alla reale identità dell’interlocutrice. Del pari, l’agente aveva comunicato i dati personali della donna soltanto agli access providers, non anche agli utenti (dei vari siti e chat), così evitando che sconosciuti la importunassero a vario titolo e, pertanto, che la stessa patisse un danno in tal senso. Tanto che la contestazione aveva avuto ad oggetto non l’art. 494 c.p., ma l’art. 167, d.lg. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), che punisce, per l’appunto, l’illecito trattamento di dati personali, quale indebita comunicazione degli stessi a terzi; anche quando i dati in questione non siano da ritenere sensibili, come affermato dalla Corte nel caso di specie.

La sentenza in commento

La vicenda di cui alla sentenza n. 18826 del 2012 è, in larga parte, coincidente con le prime due sopra analizzate; l’unica differenza consiste nel fatto che, in essa, non vi è creazione di un account di posta elettronica a nome altrui, ma diretta partecipazione ad una chat line con impiego di un nickname e comunicazione del numero telefonico di altro soggetto.

Differenza che la quinta sezione definisce «notevole», ma che, a parere di chi scrive, in nulla sposta i termini della questione.

La Corte pone al centro del proprio dire il concetto di nickname e la sua esatta riconducibilità (in forza della citata interpretazione estensiva) alla lettera dell’art. 494 c.p., qualora falsamente attribuito. In particolare, sottolinea che il termine “nome” di cui alla norma non indica soltanto quello proprio, ma anche tutti i «contrassegni d’identità» comunque idonei ad individuare un soggetto; tra questi, un nome di persona immaginaria, uno pseudonimo e, per l’appunto, un soprannome come il nickname. Si tratta, come noto, di un elemento identificativo necessario per poter conversare in chat, scelto dall’utente, di pura fantasia e, di norma, tale da nascondere completamente – o quasi – la reale identità del soggetto (difficilmente “enrico70” o “il giurista” potrebbero ricondurre a chi scrive questa nota…). Un “nome”, dunque, che attribuisce a chi interviene «un’identità sicuramente virtuale», come bene afferma la quinta sezione, poiché destinata ad esaurirsi nell’ambito delle comunicazioni via internet; nondimeno, però, un’identità che copre una dimensione reale, riferita ad un soggetto concreto e particolarmente rilevante in taluni contesti – come una chat erotica – che ben possono sfociare nel materiale contatto tra gli interlocutori.

Anzi, che tendenzialmente sono finalizzati proprio a questo.

Nella vicenda in esame, peraltro, il nickname è valorizzato dalla Corte non tanto quale momento di alterazione soggettiva dell’agente, quanto come strumento di determinazione del danno alla persona offesa (in altri termini, non interessa tanto celarsi sotto una fantasiosa identità, quanto permettere che questa sia associata ad un’altra, specifica persona); si sottolinea, infatti, che era stato creato – per volontà dell’agente – con due lettere contenute nel nome e nel cognome della donna, sì da poter consentire agli utenti di accostarlo facilmente al vero identificativo della stessa.

Questo assunto, a parere di chi scrive, non è condivisibile.

Il nickname in questione – “MKYSEX” – appare, infatti, talmente “criptico” (specie tolto il suffisso “SEX”) da rendere impossibile un qualunque riferimento ad una persona reale, anche qualora – per ipotesi quasi inverosimile – l’utente della chat la conoscesse davvero; lo stesso, piuttosto, risulta una tipica espressione di identità virtuale, ovvero un nome di mera fantasia con il quale “presentarsi” e conversare in Rete, senza possibilità di essere individuati. Ciò non impedirebbe, peraltro, di configurare comunque il delitto di cui all’art. 494 c.p., qualora sostenuto dal necessario dolo specifico; l’attribuzione di un falso nome o di un falso contrassegno, infatti, se non rivolta ad altri, è in ogni caso diretta a se stessi, come strumento per celare la propria identità e, pertanto, idoneo a realizzare una sostituzione di persona penalmente rilevante.

A conclusioni pienamente adesive rispetto alla decisione della Corte, invece, deve giungersi con riguardo al numero telefonico della persona offesa, da ritenere elemento davvero centrale nella vicenda in oggetto; solo l’aver fornito questa utenza, infatti, ha consentito ai partecipanti alla chat di entrare in contatto con la (apparente) titolare del nickname, così come ha permesso all’agente di recare a questa un evidente danno, subissata – com’è avvenuto – di chiamate volte ad incontri a scopo sessuale. Soltanto il numero di telefono, in altri termini, ha consentito un collegamento sicuro tra il nickname e la persona fisica, nonché – e soprattutto – tra questa ed una disponibilità ad incontri intimi, chiaramente desunta dal tenore delle conversazioni via chat; così attribuendo alla persona offesa una determinata qualità, una certa “caratteristica”, ed inserendola – come ben afferma la quinta sezione – «in un circuito di comunicazioni erotiche idonee a lederne l’immagine e la dignità, nonché a comprometterne la serenità, danno in concreto verificatosi».

Così facendo, inoltre, l’agente ha diffuso in Rete – senza autorizzazione di sorta – un vero e proprio dato personale altrui, peraltro tra quelli oggi più gelosamente custoditi; dato da intendere – giusta art. 4, comma 1, lett. b), d.lg. n. 196 del 2003 – come «qualunque informazione relativa a persona fisica, identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale». Come l’indirizzo di posta elettronica, il codice fiscale, il numero di conto corrente, la password per accedere ad un sito, la targa della vettura e, per l’appunto, l’utenza telefonica, specie se cellulare; da cui, peraltro, possono essere estratte numerose, altre informazioni personali, quali le chiamate effettuate e ricevute, i messaggi sms, nonché i numeri contattati, con relativi intestatari.

Orbene, così riportati i termini della sentenza, si ritiene che l’assunto cui perviene la quinta sezione – ovvero il pieno riconoscimento di un’ipotesi ex art. 494 c.p. – sia senza dubbio corretto e condivisibile, ravvisandosi tutti gli elementi costitutivi del reato (la condotta, il dolo specifico e l’evento); cionondimeno, e proprio alla luce di quanto appena sostenuto, a parere di chi scrive debbono essere invertiti i termini del ragionamento espresso dalla Corte.

In particolare, la sostituzione di persona non appare perfezionata dall’aver attribuito ad altri un nickname, «corredato inoltre del numero di telefono mobile della stessa persona offesa»; come a descrivere quest’ultimo quale momento meramente accessorio del reato, invero già integrato con l’assegnazione di un finto soprannome. Piuttosto, la fattispecie appare consumata proprio con la comunicazione del numero telefonico, il quale solo ha consentito agli utenti della chat di stabilire un rapporto “reale” con una persona fisica; di sentire la voce di colei che conoscevano solo come “MKYSEX”; di proporle quegli incontri ai quali lo stesso nickname li aveva “preparati” via chat; di sentirsi respingere, probabilmente in malo modo. In sintesi, solo con l’utenza telefonica si è compreso che “MKYSEX” si riferiva ad una persona diversa da quella che aveva partecipato alle conversazioni; solo con la stessa utenza, quindi, si è verificato l’evento richiesto dalla norma, quale l’induzione altrui in errore, e si è manifestata la volontà di recare ad altri un danno.

CONCLUSIONI

La sentenza n. 18826 del 2012 risulta particolarmente importante poiché affronta quelle forme di aggressione ai contrassegni identificativi – ormai avvertiti come espressione dell’essenza dell’individuo – che si traducono in vere ipotesi di sostituzione di persona. Fenomeno che l’enorme sviluppo informatico degli ultimi 15-20 anni ha eccezionalmente acuito, sostenuto dalla quasi costante garanzia dell’anonimato e dalla particolare facilità tecnica dell’operazione; ciò, in uno con la difficoltà di chiamare a rispondere gli internet service providers, ha reso sempre più frequenti furti di identità o, comunque, alterazioni di nomi, stati o qualità di rilievo.

Ed allora, dato questo contesto, la pronuncia appare molto equilibrata, perché tende a tutelare il bene giuridico senza violare la reale portata della norma; in altri termini, la Corte non si fa “prendere la mano”, non cede alle lusinghe di un’interpretazione che potrebbe scivolare nell’applicazione analogica, ma si muove sulla sottile linea dell’ermeneutica estensiva. Così dimostrando che questa, ed il conseguente adeguamento dell’ambito di operatività dell’art. 494 c.p., sono operazioni non soltanto tecnicamente possibili, ma anche idonee ad affrontare le più “aggiornate” e temibili ipotesi di aggressione; senza che vi sia pericolo, quindi, che le stesse rimangano prive di sanzione penale. Occorrerà verificare, adesso, se questo indirizzo sarà ulteriormente seguito dalla Corte, e magari arricchito da ulteriori argomenti; attesa che – è facile prevedere – non durerà affatto a lungo.

Cassazione Penale, fasc.1, 2014. Nota a sentenza

 

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