E poi, in modo ancora più esplicito: “Sono saturo della vita digitale e voglio ritornare nel mondo reale. Sono un essere umano prima di essere uno scrittore. E sono uno scrittore prima di essere un blogger. Anche se è stata una gioia, un privilegio, aver contribuito a spianare la strada a una forma di scrittura del tutto inedita, ho voglia di tornare a forme diverse, più antiche. Voglio tornare a leggere, lentamente, con attenzione. Voglio avere un’idea e lasciare che assuma forma lentamente, invece di trasformarla istantaneamente su un blog. Voglio scrivere saggi lunghi che possano dare risposte più profonde, più accurate. Voglio scrivere un libro”. Un outing in piena regola, un ritorno alle origini, ai vecchi strumenti del mestiere, a quel mestiere di scrivere che gli era stato dentro fino al tramonto del millennio passato.
Sullivan ha cominciato col “blogging” nel 2000, ma era già una firma affermata, come notista politico del settimanale “The New Republic”. Il suo “The Dish” va in orbita a fine novembre, proprio in concomitanza con le presidenziali Usa che vedono George Bush battere sul filo (contestatissimo) di lana il rivale democratico Al Gore. Ed è già 11 settembre, una data che sembra sconvolgere Sullivan. Da notare che l’altro big Blog a stelle e strisce, “Instapundit” di Glenn Reynolds, oggi ancora splendidamente in vita (e di cui parleremo prossimamente), entra nel web ad agosto 2001, neanche un mese prima il tragico attacco alle Twin Towers. Sullivan, cattoconservatore convinto, ricordano gli analisti, “era un deciso supporter dell’invasione in Iraq. Ma le sue convinzioni cominciarono a vacillare dopo le prime rivelazioni su Abu Graib e i luoghi di tortura”. Da qui una sorta di conversione che aveva il sapore di un’autoflagellazione, che lo porterà a pubblicare un e boook (forse il primo dell’epoca!) sulla guerra in Iraq titolato “I was wrong”, avevo torto, ho sbagliato.
Un ribaltamento che riporta a una delle chiavi interpretative del suo blog-pensiero: tu scrivi una cosa di getto, poi leggi i commenti, ti accorgi che qualcosa non va, posso anche cambiare rotta e virare di 180 gradi. Per la serie: mentre se scrivi su un media tradizionale “scripta manent”, nell’universo del web “scripta volant”, e sono quindi modificabili in un batter d’ali. E proprio con “I was wrong” vira verso sinistra, Sullivan,dove del resto lo portavano sue profonde convinzioni in temi di diritti civili, soprattutto verso una “famiglia” diversa, lui gay convinto e praticante; e sui temi del welfare, della salute, terreno sul quale si troverà ben presto obamiano convinto. E sarà proprio il presidente Barack a dichiararsi un assiduo “lettore del Dish”. Dish and chips, verrebbe da dire, visto che il piatto è sempre ricchissimo di commenti, in diretta dai lettori, che aumentano a ritmo vertiginoso lungo le rotte dei 2000, e crescono le sezioni, alcune diventate un mito, come quella sui paesaggi lontani o vicini da identificare, immagini da brivido inviate dai readers e inserite con amorevole cura da Sullivan e il suo team, una squadra di magnifici otto che non dimentica di elencare nome per nome, carattere per carattere, nel suo emozionante farewell di fine gennaio.
Le cifre, come per miracolo, si moltiplicano. Si arriva a un top di 8 milioni di pagine visualizzate al mese, con una smisurata rete di readers & followers. Il tutto si traduce in un fiume di sottoscrizioni quando, due anni fa, Sullivan decide di lanciare una campagna di crowfunding, una tecnica nata negli Usa e poi propagatasi in Europa (e anche da noi, ma con modesti risultati), per raccogliere fondi da lettori-fans: non azionariato diffuso, né sbarco in borsa, solo una campagna attiva di raccolta fondi per chi crede in questo o quel progetto. E gli amici di mister Sullivan sfondano il tetto dei 30 mila, un esercito che sottoscrive, crede, segue, posta, invia commenti o foto, interagisce con i writers del Dish.
“Un volo, una parabola completa – commentano alcuni esperti di old and new media – partita grazie alla partnership con i siti di alcuni magazine di tendenza come Time prima di tutti, e poi The Atlantic e The Daily Beast, acquisisce man mano una sua autonomia, si mantiene ed è già un gran risultato, poi fa il salto con il crowfunding e fa segnare cifre da capogiro: un fatturato annuo da oltre 1 milione di dollari e una crescita annua che supera il 15 per cento”. E senza cedere a compromessi commerciali o parapubblicitari: “i contenuti sponsorizzati e la pubblicità locale non sono presi in alcuna considerazione – nota un esperto del settore, William Finnegan – secondo Sullivan sono una piaga del giornalismo”. Filosofia che – come vedremo – non sarà invece nelle corde di Instapundit che, per fare un solo esempio, accanto ad un fondo di fuoco del suo patròn Reynolds contro le energie rinnovabili (16 febbraio 2015: “Il sogno democratico delle energie verdi sta diventando il loro incubo”), esibisce una pubblicità del tipo: “non investite nel solare”.
Sulla ormai storica esperienza di Sullivan & C. e sul futuro di quel che resta del giornalismo, possono essere molto utili alcune considerazioni di Megan McArdle, cresciuta sotto la stella di Reynolds (“my blogfather was Instapundit”) e poi passata all’industria mediatica old style (un percorso inverso rispetto alle new media waves). “Ricordo che Reynolds diceva, ‘il giornalismo è una conferenza, il blog è una conversazione’ e non credeva comunque che alla fine i blogs avrebbero preso il posto dei Big Media, pur se avevano rappresentato una forte spinta per un nuovo approccio, più agile, nell’accesso alle informazioni, e quindi in qualche modo costretto i media tradizionali ad adattarvisi. Il problema, per una impostazione un po’ passata di intendere il blog, non si trova nei social media: il fatto è che il blog è in fase di estinzione”. La stessa vita-parabola di Sullivan, spiega McArdle, è emblematica: “Non c’è alcuna sorpresa perchè poi si è fuso; c’era invece da stupirsi perchè durava da così tanto”.
E ancora, sul giornalismo: “Ma questa chiamiamola implosione è un avvertimento per tutto il mondo del giornalismo, un’industria che si trova ora davanti a due grandi sfide. La prima è quella di trovare un modello economico che possa ‘pagare’ il giornalismo, che non è stato ucciso dai blogger, mai dai giganti del Web che spendono montagne di soldi in pubblicità senza effettuare alcuna seria analisi dei costi. Andrew Sullivan, d’altro canto, è stato il pioniere dell’unico modello alternativo possibile, le sottoscrizioni, e io ritengo che la sua esperienza ha dimostrato che questo modello non funziona. Il Dish ha raccolto un mare di adesioni dai lettori fidelizzati, molto al di là delle più rosee aspettative, e ciò ha consentito di raccogliere fondi più che sufficienti per sostenere i costi delle operazioni: ma solo se quelle operazioni raggiungevano un picco insostenibile…”. Per spiegare meglio il concetto, Megan McArdle ricorda una frase di suo padre medico: “Per offrire un esempio di come funziona questo circuito in certe industrie, ecco alcune parole di mio padre sulla riforma sanitaria: ‘Sì, abbiamo cercato di fare la cosa giusta. Per questo abbiamo fallito”.
Ci sembra molto istruttivo riportare, a questo punto, qualche stralcio dall’ultimo Sullivan, all’indomani dell’addio al suo amato Dish, e a quell’universo “che resterà sempre parte di me, ovunque io vada”.
Ecco il vero spirito del blog, nel Verbo di Sullivan: “La velocità con cui un’idea nella tua testa raggiunge gli occhi di migliaia di persone ha un altro effetto deflagrante: ti conferma che puoi di tanto in tanto prorompere in cose che sono offensive, sciocche, brillanti, o in linea con ciò che in quel momento la gente pensa o dice in privato. Questo vuol dire che i blogger si pongono in una dimensione che è molto prossima a quella di certi guru, ma sono poi loro stessi a prendersi in giro” (c’è qualcosa di Beppe Grillo e la suo bloggomania in queste parole?). Poi: “L’unico modo per correggere i tuoi errori o le tue follie è in pubblico, sul blog, davanti ai tuoi lettori. A quel punto sei più nudo di quanto ti potevano proteggere i tradizionali vestiti di un normale organo d’informazione”.
“E così, nel momento in cui sei libero, sei anche nudo: il blog è una forma mediatica che corre in un lampo. Lo noto proprio quando scrivo il mio blog, prorpio l’opposto di quando scrivo sui vecchi media. Ci metto meno tempo, mi preoccupo meno della forma, e mi preoccupo molto meno delle conseguenze, quando scrivo sul blog. Ciò mi porta a una maggiore onestà nello scrivere”.
“Ogni cosa è giusta, fino al momento in cui non ce n’è un’alta ancora di più. E io voglio solo chiedere ai futuri lettori di capire questo. Quel che ho scritto non va considerato come intercambiabile con altri scritti considerati di maggior peso, oppure saggi. Blogging is a different animal, il blog è una specie, una razza del tutto diversa. Obbliga ad andare avanti; ti chiede di scrivere qualcosa che puoi poi subito rivedere, o rimpiangere, oppure esserne orgoglioso. E’ molto più simile ad una performance in una trasmissione radio che a quella di una scrittore per un libro o un giornale oppure una rivista. Io stesso ho fatto tanti di quegli errori lungo il percorso che non avrei forse mai fatto in altre, più stimate forme di scrittura; ho ferito i sentimenti di alcune persone che amavo profondamente; ho detto cose che non avrei mai detto, così come cose per le quali ci vuole una forza straordinaria per tirarle fuori, proprio perché sono vere in quel momento in cui accadono. Tutto questo fa parte della vita: e il blog cammina proprio accanto al vivere i tutti i giorni, con tutti i suoi errori, le sue gioie, le incomprensioni e le emozioni, come succederà sempre nella scrittura”.
“Ho cercato, prima di tutto, di essere onesto. E voi mi avete aiutato. Essere onesto significa scrivere cose che potrai vedere come folli domani; significa rivelare te stesso in modi non sempre adulatori; significa perdere amici perchè hai il dovere di criticare quello che scrivono. Significa scrivere pericolosamente con la sola assicurazione – senza alcun editore alle spalle – che i lettori ti correggeranno quando sbagli e ti incoraggeranno quando hai ragione. E’ un modo terrificante e al tempo stesso esaltante di scrivere – ed è anche un’esperienza che ti svuota, emotivamente e psicologicamente. Ma l’ho amato come niente altro al mondo. L’ho gustato ogni giorno. Non cambierei questi anni con altri”. Se sbaglio, “mi corrigerete”, diceva papa Woytila. E pensare che l’ultima immagine sul blog di Sullivan è quella di un altro papa, Francesco.
Ma eccoci alle ultime parole – dedicate ai suoi amici e colleghi, Patrick, Chris, Jessie, Matt, Chas, Alice, Jonah, Zoe – sul Blog made in Sullivan, ora atteso da altre prove di scrittura, e di vita. “Spero che questi quindici anni di intuizioni e di errori, nuove verità e vecchie bugie, pregiudizi e amore, scherzi e intimità, presentimenti e oblii, sia preso per quello che è, o poteva essere. Spero che possiamo guardare con occhi semplici al nostro viaggio, alle nostre risate, al dolore che abbiamo condiviso e all’amore che ci ha unito come una squadra e una comunità. Perchè abbiamo combattuto insieme per cercare la verità che c’è nel mondo”. Buon viaggio, Andrew.
P.S. Mentre Sullivan saluta il suo blog, per lo storico blog di Grillo a quanto pare la situazione precipita. Ecco cosa scrive il Corsera del 18 febbraio. “Molto tempo è passato da giugno 2006, quando il sito di Grillo era nella top ten mondiale e al comando incontrastato in Italia. Ora www.beppegrillo.it è precipitato al numero 7.447 nel mondo e al 154esimo in Italia. La classifica – spiega Alessandro Trocino – è di Alexa, gruppo Amazon, tra le principali aziende mondiali che si occupano di statistiche internet e partner di Google nel determinare il ranking di un sito”.
(Continua)
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