Con la sentenza del 12 aprile 2012, ricorso 30002/08, la Corte dei diritti dell’uomo torna a discutere di libertà di stampa. Giornalisti francesi del quotidiano Midi Libre pubblicano documentazione soggetta a segreto professionale, e quindi subiscono una perquisizione da parte dell’autorità giudiziaria, al fine di rinvenire elementi per scoprire l’identità di chi aveva dato quei documenti ai giornalisti. La perquisizione, ed il conseguente sequestro di supporti informatici ed agendine, non porta però i risultati sperati, e i responsabili della fuga di notizie rimangono ignoti.
I giornalisti impugnano il provvedimento, chiedendo la restituzione degli strumenti di lavoro, ma ottengono un secco rifiuto nei tre gradi di giudizio, per cui ricorrono alla Corte europea.
La sezione quinta della Corte accoglie il ricorso dei giornalisti condannando lo Stato francese, e ricorda come la libertà di espressione sia uno dai capisaldi di una società democratica, all’interno della quale le garanzie della stampa sono essenziali. Tra queste garanzie un ruolo di rilievo è dato proprio dalla protezione delle fonti giornalistiche per l’ovvio motivo che se le fonti non sono adeguatamente protette si ha un evidente effetto deterrente sia per il giornalista, che potrebbe essere spinto a non servirsene più, sia per le stesse fonti indotte a non parlare per non correre rischi.
È chiaro che in tal modo viene limitato il ruolo di cane da guardia del giornalista, e la sua capacità di fornire informazioni importanti alla collettività.
Ovviamente anche la stampa è soggetta a dei limiti, tra i quali la protezione della reputazione e dei diritti delle persone. In generale, chiarisce la Corte, però qualsiasi restrizione all’esercizio della libertà di espressione (evidenziamo che si parla di libertà di espressione genericamente, e non solo di libertà di stampa!) deve essere conseguenza di un bisogno sociale imperativo. È nel bilanciamento tra gli interessi in gioco che si può trovare o meno la giustificazione alle restrizioni alla stampa.
L’articolo 10 della Convenzione dei diritti dell’uomo lascia poco spazio a tali restrizioni, ed in particolare è fondamentale verificare se le limitazioni sono o possono essere tali da scoraggiare la libertà di espressione, e quindi impedire la comunicazione alla collettività di questioni di interesse pubblico.
Nel caso specifico la Corte rileva che la perquisizione svolta in casa e sul posto di lavoro dei giornalisti al fine di individuare le fonti della fuga di notizie, è tale da inficiare la fiducia delle fonti medesime, e quindi determina comunque una inammissibile interferenza con la libertà di stampa, anche se, come nel caso in questione, le fonti non vengono rintracciate. Interferenza che, pur se giustificata dal fatto che fosse sancita da norme e tesa ad impedire la divulgazione di informazioni riservate per proteggere la reputazione di soggetti terzi, non risultava necessaria in una società democratica per raggiungere l’obiettivo e quindi era sproporzionata rispetto alla scopo legittimo perseguito.
Per questi motivi la Corte condanna il governo francese, stabilendo che se il giornalista agisce nel rispetto delle norme deontologiche per informare l’opinione pubblica su fatti di interesse generale, non può subire limitazioni al diritto alla libertà di espressione, anche se la sua fonte ha violato qualche legge, come nel caso specifico (un obbligo di segretezza).
In quest’ottica può essere utile ricordare che in Italia la normativa che protegge il segreto professionale dei giornalisti può essere invocata solo dai giornalisti professionisti, quindi iscritti all’albo, che non possono essere obbligati a deporre relativamente ai nomi delle loro fonti, limitazione che ora appare in contrasto con la giurisprudenza della CEDU.
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