II pubblico ministero non può sequestrare il cellulare e il computer del giornalista, neppure quando considera i supporti informatici il corpo del reato o lo strumento per individuare gli autori di altri crimini. La Corte di cassazione, con la sentenza 48587/2011, bolla come una violazione del diritto del professionista a mantenere il segreto sulle sue fonti, e di conseguenza della libertà di espressione, il sequestro di strumenti senza i quali un reporter non è più in condizione di svolgere il suo lavoro.
In nome della necessità di salvaguardare la libertà di stampa, la Cassazione accoglie il ricorso di un redattore a cui era stato messo sotto chiave sia il portatile sia il pc, con l’accusa di aver diffuso notizie coperte dal segreto istruttorio. Secondo il Gip – che aveva rifiutato la restituzione benchè disposta, previa cancellazione dei dati, dai Pm titolari delle indagini – il diritto costituzionalmente protetto invocato dal giornalista doveva cedere il passo alla tutela della collettività. Il sequestro probatorio messo in atto non aveva, infatti, una natura “esplorativa”, ma era stato deciso sulla base di una specifica imputazione che aveva portato a qualificare i beni oggetto del provvedimento come corpo del reato. Inevitabile per il redattore imboccare la strada della Cassazione, grazie alla quale incassa una decisione a lui favorevole.
La Suprema corte ricorda le numerose occasioni nelle quali la Corte europea dei diritti dell’Uomo – chiamata a chiarire la portata dell’articolo 10 della Convenzione sulla libertà di espressione – ha sottolineato il ruolo essenziale svolto dalla libera stampa in una società democratica e la necessità di offrire le dovute garanzie a chi, solo essendo svincolato da controlli e pressioni, può giocare l’importante ruolo di “cane da guardia”.Tra i diritti del giornalista rientra senza dubbio la libertà di «ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche». Il sequestro del materiale costituisce una violazione della libertà di espressione perché può condurre gli inquirenti a individuare le fonti alle quali il professionista aveva garantito l’anonimato, pregiudicando così sia la futura attività del redattore sia l’immagine del giornale.
Il provvedimento adottato -chiarisce la Corte – non sarebbe giustificato neppure dall’esigenza di rintracciare gli autori di altri reati. La tutela della riservatezza delle fonti deve considerasi blindata e può essere scalfita, nel rispetto della Convenzione, solo come estrema ratto. Il caso eccezionale, a cui fa riferimento la Corte, è quello in cui l’ingerenza sia l’unica possibilità per raccogliere le prove utili a perseguire il reato. Limiti rigorosi, fissati dall’articolo 200, comma 3 del Codice di procedura penale, che consente al giudice di ordinare al giornalista di svelare le sue fonti solo quando la notizia è indispensabile per la prova del reato e l’unico mezzo a disposizione degli inquirenti per ottenere il risultato.
La Cassazione insiste nel ricordare che si tratta comunque di previsioni derogatorie e come tali vanno intese in senso rigoroso. Non basta dunque un nesso di «pertinenzialità» tra le notizie e il tema dell’indagine per dare il via a un sequestro che non poteva essere disposto e dunque neppure mantenuto.
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