Cassazione, non incorre nel reato di diffamazione il giornalista che riporta dichiarazioni lesive tra persone famose

Il giornalista non è un censore, ma un certificatore di affidabilità. La Corte di Cassazione con la recentissima sentenza n. 28502 del 2.7.2013 ha precisato che non incorre nel reato di diffamazione a mezzo stampa il giornalista che riporti le frasi di un personaggio, che occupa “una posizione di alto rilievo nell’ambito della vita politica, sociale, economica, scientifica, culturale, pure in sé diffamatorie, nei confronti di altro personaggio, la cui posizione sia altrettanto rilevante”. La 5^ Sezione Penale della Cassazione (Pres. Zecca, Rel. Vignola), infatti, ha ritenuto che “è la dichiarazione rilasciata dal personaggio intervistato che crea di per sé la notizia, indipendentemente dalla veridicità di quanto affermato e dalla continenza formale delle parole usate. Notizia che, se anche lesiva della reputazione altrui, merita di essere pubblicata perché soddisfa quell’interesse della collettività all’informazione che deve ritenersi indirettamente protetto dall’art. 21 della Costituzione. L’interesse del pubblico ad apprendere tale notizia è del tutto indipendente dalla corrispondenza al vero del suo contenuto e dalla continenza del linguaggio adottato.Non può quindi pretendersi che il giornalista intervistatore controlli la verità storica dei contenuti dell’intervista in quanto comporterebbe una grave limitazione alla libertà di stampa.Parimenti non si può pretendere che il giornalista (ed il direttore Responsabile) non debba pubblicare (a rischio di sanzione penale e risarcitoria) l’intervista solo perché contenente espressioni offensive ai danni di altro personaggio noto: verrebbe ugualmente compresso ildiritto-dovere di informare l’opinione pubblica su tale evento.Infine, non si può imporre al giornalista (ed al direttore Responsabile), l’onere di “purgare” il contenuto dell’intervista dalle espressioni offensive: in primis perché gli verrebbe attribuito un potere di censura che non è previsto dalla legge o dalla deontologia professionale (se vuole darsi ancora un senso concreto a tale termine in disuso ma abusato); in secondo luogo perché la notizia, costituita appunto dal giudizio non lusinghiero, espresso con parole forti da un personaggio noto all’indirizzo di altro personaggio noto, verrebbe ad essere svuotata del suo reale significato (facendo salvo ovviamente il limite della decenza e del buon gusto, più che il buon costume. Si apre forse una crepa nel dogma giurisprudenziale della verifica della notizia prima della sua pubblicazione: almeno in questo specifico caso il giornalista sarebbe dispensato dalla affannosa ricerca di riscontri del rispetto della «verità» dei fatti raccontati.Il caso specifico risolto dalla Suprema Corte trae origine da una vecchia polemica sulla gestione del Comitato Provinciale della Croce Rossa di Perugia: nelle interviste rilasciate dagli ispettori dimissionari e pubblicate da “la voce della Romagna”, erano stati profferiti giudizi impietosi sull’operato della presidenza dei primi anni 2000 («totale sfacelo», «gestione basata su interessi personali»). Tali giudizi erano stati valutati dal Tribunale e dalla Corte di Appello di Perugia come eccedenti il diritto di cronaca in quanto non meritevoli della scriminante della «verità» del fatto raccontato. Poi la lunga vicenda processuale, iniziata nel 2002, si era conclusa con una declaratoria di prescrizione del reato di diffamazione a mezzo stampa, ma aveva lasciato il passo alla più consistente (e forse più dannosa per il giornalista e l’organo di stampa) questione del risarcimento danni da reato. (ora gli ex imputati potranno chiedere il risarcimento del danno da eccessiva durata del processo con riferimento alla ex legge Pinto). L’unica avvertenza per l’intervistatore – e per i giudice chiamato poi a decidere – è di valutare bene lo standing del personaggio, che sia «noto e affidabile»: per la notorietà l’indagine è facile, ma per l’affidabilità? Forse si attribuisce al giornalista, nella verifica della affidabilità (nel panorama sociale, per non dire politico, attuale) un compito ben più gravoso della semplice censura di non lontana memoria.

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