CASSAZIONE: MIELI ANDAVA GIUSTAMENTE ‘PUNITO’ PER AVER PUBBLICATO FOTO DI AMMANETTATO NON ANCORA GIUDICATO

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La Cassazione ha voluto entrare nel merito di una questione di rispetto di quel che il codice deontologico dell’ordine dei giornalisti impone, cioè non ledere l’altrui dignità, come accade nel caso di pubblicazione di foto di uomini in manette. Fintanto che questi non sono stati dichiarati colpevoli da un giudice. L’episodio che ha portato a questa sentenza della Corte Suprema, è stata la pubblicazione di foto apparse il 10 settembre 2005 sul Corriere della Sera, ai tempi diretto da Paolo Mieli.
Le foto incriminate ritraevano un uomo in manette, Guglielmo Gatti, imputato di doppio omicidio dei coniugi Donegani, mentre veniva portato in Tribunale.

Il Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti, nella seduta del14 settembre 2005, non approvò il comportamento di Mieli e scelse un avviso disciplinare, per redarguire l’operato del giornalista, invitandolo a trasmettere entro trenta giorni le controdeduzioni, che Mieli però non ritenne necessarie.
A questo punto il Consiglio, in data 2 maggio 2006, decise di aprire un provvedimento disciplinare nei suoi confronti, sulla base della violazione dell’art. 8 del codice deontologico (Tutela della dignità della persona) che afferma: “Salva l’essenzialità dell’informazione, il giornalista non fornisce notizie o pubblica immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesivi della dignità della persona, né si sofferma su dettagli di violenza, a meno che ravvisi la rilevanza sociale della notizia o dell’immagine. Salvo rilevanti motivi di interesse pubblico o comprovati fini di giustizia e di polizia, il giornalista non riprende né produce immagini e foto di persone in stato di detenzione senza il consenso dell’interessato. Le persone non possono essere presentate con ferri o manette ai polsi, salvo che ciò sia necessario per segnalare abusi”.
Giustificazione di Mieli a questo punto fu che in tal data era in vacanza e che non poteva avere un controllo assoluto sulla pubblicazione (!), in particolare modo non per un articolo pubblicato a pag. 16, quindi in coda a notizie più importanti. Affermando anche che non erano disponibili altre immagini dell’imputato, se non quelle in manette; nessun commento però alludeva in alcun modo alla colpevolezza del Gatti.

Ecco alcuni stralci della sua difesa: “Venendo alla foto di Guglielmo Gatti, vorrei sottolineare che la pubblicazione è avvenuta il 9 settembre 2005, vale a dire in un periodo in cui abitualmente sono in ferie, pur mantenendo, ovviamente, ogni responsabilità connessa al mio ruolo.” E ancora: “Spetta al giornalista al desk, che disegna il menabò, sceglie il formato orizzontale o verticale della foto, la sua collocazione (sfumandola, pixandola, ecc.) decidere come «tagliare» l’immagine ed impaginarla. Ciò non vuol dire che io mi senta sollevato dall’obbligo di verificare che ciò, volta per volta accada, ma solo che, essendo la foto in questione stata pubblicata a pag. 16 di una edizione sostanzialmente estiva, la stessa, di fatto, non è stata sottoposta materialmente al mio controllo”.

Il Consiglio non accettò la linea di difesa di Mieli, anche perché quest’ultimo si rifiutò di fornire il nome del suo sostituto in periodo estivo, così da far ricadere su di lui la responsabilità. Secondo l’articolo 3 della legge 47/1948 sulla stampa, “ogni giornale (o altro periodico) deve avere “un direttore responsabile”. Il Consiglio decise dunque di sanzionare con la censura (articolo 53 legge n. 69/1963) Paolo Mieli: “La censura, da infliggersi nei casi di abusi o mancanze di grave entità, consiste nel biasimo formale per la trasgressione accertata”.

Il direttore non ne volle sapere e si rivolse alla Corte d’appello di Milano, che nel maggio 2008 diede invece ragione all’Ordine, proprio perché il gesto era assolutamente giustificato dall’operato deontologicamente scorretto di Mieli.
Il direttore, convinto di aver agito per amor di verità, tentò la via del ricorso in Cassazione. E ancora una volta è stato riconosciuto colpevole. La Terza sezione civile della Corte Suprema ha infatti, con sentenza 17158, confermato ciò che la Corte d’appello aveva ai suoi tempi stabilito.

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