La sentenza
“I reati di cui all’articolo 167 del Codice privacy, per i quali qui si procede – si legge nella sentenza depositata oggi dalla Terza sezione penale – devono essere intesi come reati propri, trattandosi di condotte che si concretizzano in violazioni di obblighi dei quali è destinatario in modo specifico il solo titolare del trattamento e non ogni altro soggetto che si trovi ad avere a che fare con i dati oggetto di trattamento senza essere dotato dei relativi poteri decisionali”. Il gestore del servizio di hosting – osserva la Suprema Corte – “non ha alcun controllo sui dati memorizzati né contribuisce in alcun modo alla loro scelta, alla loro ricerca o alla formazione del file che li contiene, essendo tali dati interamente ascrivibili all’utente destinatario del servizio che li carica sulla piattaforma messa a sua disposizione”. I manager “non sono titolari di alcun trattamento” La posizione di Google Italia e dei suoi responsabili, rilevano i giudici di piazza Cavour, “è quella di mero internet host provider, soggetto che si limita a fornire una piattaforma sulla quale gli utenti possono liberamente caricare i loro video”, del cui “contenuto – spiega la Cassazione – restano gli esclusivi responsabili”. Alla luce di ciò, i manager di Google imputati nel procedimento “non sono titolari di alcun trattamento”, mentre “gli unici titolari del trattamento dei dati sensibili eventualmente contenuti nei video caricati sul sito sono gli stessi utenti che li hanno caricati, ai quali soli possono essere applicate le sanzioni, amministrative e penali, previste per il titolare del trattamento del Codice Privacy”. In primo grado era stata affermata la responsabilità del provider Da questa vicenda è scaturito il primo processo, a livello internazionale, nel quale è stato messo sotto accusa il board dei responsabili di Google, per il settore italiano, accusati di aver mancato di vigilare sui contenuti della clip in questione, segnalata il 5 e 6 novembre del 2006, e rimossa il 7 novembre, dopo l’intervento della Polizia postale su segnalazione di alcuni utenti indignati. In primo grado era stata affermata la responsabilità del provider, mentre in secondo grado la Corte di appello di Milano, nel dicembre 2012, pronunciò l’assoluzione con soddisfazione dei rappresentanti della diplomazia americana in Italia preoccupati dalle conseguenze di una eventuale condanna per quanto riguarda i vari aspetti delle limitazioni nell’accesso alla rete.
fonte:www.rainews.it
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