Pubblichiamo sul nostro sito una sentenza della Cassazione Civile risalente al 14/08/2014. Ha ad oggetto l’illecito utilizzo di dati personali da parte degli operatori telefonici. Nello specifico la società Wind ricorre in Cassazione per capovolgere la sentenza del tribunale di primo grado, che ha stabilito la condanna al risarcimento di danni non patrimoniali nei confronti di una cliente. Quest’ultima ha asserito che il suo nominativo, comprensivo di numero telefonico e indirizzo di residenza, era apparso nell’elenco cartaceo e on line di “Pagine Bianche”, pur non avendo ella mai prestato il suo consenso a tal fine. L’illegittimo comportamento del gestore telefonico avrebbe, quindi, alterato il suo equilibrio psicologico, causandole gravi danni non patrimoniali, dal momento che in precedenza era stata vittima di un’aggressione a scopo di rapina, il cui autore è stato condannato in sede penale. In uno dei motivi di ricorso Wind lamenta palese violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, affermando che il Tribunale sarebbe incorso in un vizio di ultrapetizione in quanto avrebbe fondato la condanna della parte convenuta al risarcimento del danno non patrimoniale su un presupposto – quello dell’esistenza di uno stato ansioso depressivo – che non era stato dedotto dall’attrice. La Corte boccia la doglianza, poiché l’impiego da parte del giudice dell’espressione “stato depressivo ansioso” in luogo di quelle che si asseriscono utilizzate dalla cliente non si risolve nell’introduzione ex officio di un nuovo e diverso fatto costitutivo del diritto azionato in giudizio, integrando piuttosto una descrizione icastica del medesimo pregiudizio allegato dalla parte attrice. Wind afferma, poi, che le dichiarazioni testimoniali acquisite, in quanto generiche ed equivoche, non sarebbero sufficienti a far ritenere che la situazione psicologica in cui l’attrice ha lamentato di trovarsi sia la conseguenza del comportamento addebitato alla convenuta. La Cassazione giudica questo motivo in parte inammissibile e in parte infondato, dal momento che la sentenza impugnata è, anzitutto, in linea con il principio, enunciato da questa Corte secondo cui “in tema di risarcimento del danno non patrimoniale è ammissibile la prova per testimoni di tale danno, in quanto esso non può ritenersi in re ipsa, ma va allegato e provato, sia pure attraverso il ricorso a presunzioni semplici, e, quindi, a maggior ragione, tramite testimonianze, che attestino uno stato di sofferenza fisica o psichica”. Infine Wind sostiene che il Tribunale sarebbe incorso nella violazione dell’art. 1226 cod. civ., in quanto avrebbe proceduto alla liquidazione equitativa del danno pur in assenza dei relativi presupposti. E, infatti, la liquidazione equitativa, subordinata soltanto alla condizione che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile provare il danno nel suo preciso ammontare, non dispenserebbe la parte dall’onere di provare la sussistenza e l’entità materiale del pregiudizio lamentato, che non potrebbe ritenersi in re ipsa. Nella specie, l’attrice non avrebbe assolto tale onere probatorio, sicchè il Tribunale avrebbe liquidato equitativamente il danno in assenza della prova dell’an debeatur. La Corte boccia anche questo motivo. Il danno non patrimoniale subito dalla C. è stato ritenuto provato nella sua esistenza ontologica e, in assenza di parametri legali nello specifico operanti, la difficoltà di liquidazione dello stesso (e, dunque, il ricorso alla liquidazione equitativa) è effettivamente correlata alla sua natura di pregiudizio alla persona. Ciò che la ricorrente – a fronte di una corretta impostazione in iure della decisione – mira infine a sindacare è l’esercizio in concreto, da parte del giudice del merito, del predetto potere di liquidazione, che, come detto, può essere censurato soltanto per carenza o illogicità della motivazione. Link alla sentenza:
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