L’editoria tradizionale, quella “di carta”, per capirci, sta soffrendo una crisi senza precedenti. Vanno male (con tutte le dovute eccezioni) sia i quotidiani che i periodici. I motivi sono, di certo, più di uno. Le inserzioni pubblicitarie, linfa vitale per tutti i media, sono drasticamente diminuite. Infatti, complice la crisi generale dell’economia, le aziende investono meno con la conseguenza che gli introiti pubblicitari hanno raggiunto i livelli del lontano 1991.
Per capirci: nel 2012 gli investimenti sono scesi sotto gli 8 miliardi di euro. Per la precisione a 7,4. A ciò si aggiunge la concorrenza della televisione. La quale, anch’essa in crisi di spot, sta ribassando continuamente i prezzi della pubblicità (vedi il caso di Mediaset). E visto che in Italia il pubblico del piccolo schermo è più numeroso dei lettori, le aziende stanno riversando quelle poche risorse disponibili sulla tv che attira a sé quasi oltre il 40% degli investimenti totali. I dati, riportati da uno studio della Fieg (La stampa in Italia 2010 – 2012), sono allarmanti. In cinque anni si sono perse circa 1 milione di copie al giorno (perdita compensata solo in parte dallo sviluppo dell’editoria digitale) di giornali. Ovvero dal 2007 a oggi c’è stato un calo delle vendite del 22%. E la pubblicità è calata del 33,6%. Inevitabilmente, a pagare i “costi” della crisi sono soprattutto i giornalisti, sulla cui pelle si consumano i destini dei media cartacei. Nel solo 2012, l’occupazione, per loro, è calata del 4,2%. Sempre nell’anno passato il fatturato dei quotidiani e dei periodici è calato rispettivamente del 9% e del 9,5%. E nel primo trimestre del 2013 la situazione sembra continuare a peggiorare. Da non dimenticare, inoltre, la drastica riduzione del contributi statali. Dal 2007 ad oggi sono stati ridotti di tre quarti (pur rappresentando lo 0,01% del bilancio dello Stato) con gravi ricadute sulla tenuta di non poche redazioni. Poi c’è da considerare la “mutazione genetica” dell’informazione: sempre più diretta verso la rete. Il sistema editoriale (come il mondo in generale) sta correndo a grandi passi verso il web. Per questo occorre una ristrutturazione radicale, basata su una forma d’integrazione tra carta e web. La rete, da concorrente, potrebbe diventare un’alleata per superare la crisi dell’editoria tradizionale. In effetti, a voler dar retta ai dati, l’informazione online va completamente controcorrente. La raccolta su Internet è cresciuta, dal 2007 al 2012, del 147%; e del 5,3% dal 2011 al 2012. Giovanni Legnini (sottosegretario al Consiglio dei ministri con delega all’editoria) è stato molto chiaro sui cambiamenti che occorrono. L’esponente del governo, infatti, ha dichiarato che bisogna puntare su innovazione, qualità e ricambio generazionale. Per Legnini l’editoria tradizionale va sostenuta e aiutata a migliorarsi. Ma a patto che si punti su nuove tecnologie e su giovani leve. Quindi l’era del “sostegno a priori” può dirsi chiusa. «I fondi arriveranno. Ma non saranno un mero sussidio. Le risorse dovranno essere utilizzate per l’innovazione e l’assunzione di giovani», ha assicurato Legnini. L’idea è stata ben accolta sia dalla Fnsi (sindacato nazionale dei giornalisti) che dalla Fieg (federazione degli editori).
Ma, come ogni periodo di transizione, bisogna procedere con i “piedi di piombo”. Non ci si può esimere dal “tappare i buchi” delle aziende in crisi. Il che significa garantire gli ammortizzatori sociali ai giornalisti. Molto probabilmente sarà ripristinato quello annuale per l’editoria (stabilito dalla legge 416 del 1981). Parliamo di circa 20 milioni. Tale somma serve per garantire gli ammortizzatori sociali per i cassa integrati e per i prepensionamenti. Bisogna dire che quando si parla di innovazione e nuove tecnologie nell’ambito dell’editoria, si intende, in linea di massima, lo sviluppo della informazione online. Quindi ci si riferisce all’intero mondo delle notizie sul web. Ma questo argomento non può essere scisso dal diritto d’autore dei contenuti messi in rete. Ecco allora spuntare varie problematiche: come tutelare i contenuti sul web? come creare un modello di business che tragga profitti dai contenuti online e, nello stesso tempo, tuteli la libertà di Internet? Innanzitutto bisogna dire che conciliare la salvaguardia del copyright con la libertà della rete non è facile. «I problemi strutturali sono molteplici. Serve una soluzione su scala internazionale», ha sottolineato Legnini. Infatti la rete va oltre i confini degli Stati. Inoltre non va sottovalutata la posizione dei grandi “imperi digitali”. Parliamo dei cosiddetti “Big data” o “Over the top”. Ovvero le società che gestiscono, organizzano e rendono profittevole la rete. Tra tutti Google e Apple la fanno da padrone. Il problema dei diritti d’autore è anche collegato all’attività di queste società. Soprattutto quella di Montain View. Infatti Google funge anche da aggregatori di notizie online. In altre parole “si appropria” dei contenuti degli editori digitali per rendere più appetibile il suo servizio.
È risaputo, d’altronde, che una buona fetta degli internauti naviga in rete proprio “ a caccia” di notizie. E Google ne ricava non pochi vantaggi. In effetti anche gli editori ne traggono un profitto indiretto: una testata, un articolo pubblicizzato sui motori di ricerca, attira pubblicità e guadagna visibilità. Non bisogna trascurare, poi, una considerazione che potrebbe anche sembrare contraddittoria. In un futuro prossimo, i grandi imperi della rete, come Google e Apple, potranno anche aderire alla lotta contro i corsari del web. Infatti i cosiddetti Big data si stanno specializzando anche nella produzione di contenuti. Ad esempio You Tube (di proprietà di Google) potrebbe allargarsi e diventare anche una sorta di web tv privata con contenuti protetti. Lo stesso vale per le applicazioni e i servizi, come iTunes, di Apple.
Cosa succede in Italia? Tutti per il diritto d’autore. Ma l’Agcom latita
Gli editori, le associazioni di categoria (come Fnsi e Fieg), le Autorità di controllo delle comunicazioni e della concorrenza, la Siae rivendicano un tornaconto direttamente dagli aggregatori. Il concetto è questo: volete usare i contenuti prodotti? Allora dovete pagare.
Stando alle competenze un regolamento chiarificatore spetta all’Agcom. L’Autorità avrebbe dovuto licenziarlo tre anni fa. Ma i lavori sono stati sistematicamente ritardati, o meglio “congelati”. Già negli anni scorsi, l’Autorità guidata da Corrado Calabrò ha avviato delle consultazioni pubbliche. L’obiettivo era quello di arrivare ad una bozza di regolamento da far approvare a breve. Poi non se ne è fatto più nulla. L’Italia, in quel periodo ha perso un po’ di credibilità. Non a caso ora il Belpaese è finito nella cosiddetta “lista grigia” degli Stati per la tutela del copyright (ovvero fa parte di quei Paesi da guardare con attenzione e diffidenza). Ora il nuovo presidente di nomina “montiana” Angelo Cardani sembra voler accelerare la procedura. «Entro l’estate ci muoveremo per la messa a punto delle misure anti pirateria», ha rassicurato Cardani.
Ma quali potrebbero essere le misure concrete per contrastare la pirateria? Una ricetta magica non c’è. Varie ipotesi sono state avanzate. Si è parlato di chiusura “tout court” dei siti pirata; della rimozione dei singoli contenuti in via pre-giudiziale previa notifica di illecito (notice and take down) con relativa multa. Il tutto, secondo Antonio Preto, commissario dell’Agcom, dovrebbe essere velocizzato il più possibile. Il processo al sito pirata dovrebbe durare al massimo 35 giorni: 2 per diffidare il sito ad eliminare i contenuti protetti; 10 ai presunti colpevoli per difendersi; ed entro 25 giorni si deve chiudere il caso. «Serve una squadra di pronto intervento con procedure mirate a contrastare la pirateria in rete», ha precisato Preto. Inoltre dovrà essere bandita la pubblicità sui siti illegali. In modo da disincentivare la costruzione degli stessi.
Anche la Siae (Società italiana autori ed editori) è pronta a scendere in campo concretamente per tutelare il diritto d’autore. «Se il problema sono le risorse siamo disponibili a offrire risorse, uomini e mezzi all’Agcom. Ora è il momento maturo per agire. Serve subito un regolamento ed è necessario essere decisi. Non dobbiamo cedere ad un compromesso a ribasso. Altrimenti bruceremmo una ricchezza fondamentale per il Paese». Sono state queste le parole di Gaetano Blandini, dg della Siae.
A riguardo si è espresso anche Legnini. Per il sottosegretario con delega all’Editoria bisogna seguire il modello francese. Ovvero gli aggregatori di contenuti dovranno pagare gli editori per l’utilizzo di notizie.
Anche l’Antitrust preme per combattere la pirateria online. Per l’Autorità presieduta da Giovanni Pitruzzella servono norme che tutelino la riproduzione degli articoli (o estratti di essi) da parte degli aggregatori. Secondo l’Autorità la pubblicità online ancora non basta (in effetti gli spazi digitali sono pagati di meno rispetto a quelli sulla carta stampata e della tv). Ma l’equilibrio è delicato. Una “blindatura” dei contenuto online potrebbe avere un effetto controproducente. Ovvero la visibilità della testata e del giornalista rischierebbe di essere compromessa.
Ed è per questo che serve una cooperazione virtuosa fra chi produce contenuti e chi offre dei servizi incentrati sui quei contenuti stessi. Rimane, quindi, una domanda: in che modo si possono valorizzare i prodotti, senza restringerli, su quella piattaforma senza confini e regole che è il web?
In Europa gli stati contro gli aggregatori. Ora i contenuti si pagano. La Germania mette in discussione la neutralità della rete
Altri Paesi sembrano avere già tracciato la strada a favore della tutela del diritto d’autore. Ad esempio in Francia, dal febbraio di quest’anno, Google dovrà pagare 60 milioni di euro l’anno agli editori. Tale “tassa” permetterà all’aggregatore di notizie, Google News, di usare i contenuti prodotti dagli editori. Il presidente Francois Hollande ha commissionato uno studio: il cosiddetto Rapporto Lescure per combattere la pirateria digitale. Sarà forse per questo che in Francia l’editoria digitale è in gran fermento. E molte testate stanno progettando proprio un ingresso nell’informazione online.
Anche la Spagna e il Portogallo sembrano indirizzati verso la stessa via. In Belgio si lascerà più spazio alle contrattazioni individuali. C’è chi deciderà di restare negli aggregatori, magari guadagnando in pubblicità e visibilità, e chi lascerà la piattaforme digitali.
In Brasile, dall’ottobre del 2012, il 90% delle testate si è ritirato da Google News perché il colosso di Montain View non pagava nulla.
In altri Paesi, tra cui gli Usa e il Giappone, a regolare il diritto d’autore c’è un apposito trattato: l’Acta (Anti Counterfeiting Trade Agreement). Ovvero un accordo commerciale plurilaterale volto a contrastare la contraffazione e la pirateria informatica, al fine di tutelare copyright, proprietà intellettuali, brevetti su beni, servizi e attività legati alla rete. Gli Stati Uniti, uno dei maggiori pionieri dell’Acta, sono molto decisi a contrastare i corsari della rete. Ne è una prova la dichiarazione di Stanford McCoy, responsabile dell’Ustr (organismo che si occupa di tutela del copyright negli Usa): «La creatività e l’innovazione sono priorità strategiche. Quindi vanno tutelate dai siti canaglia. La pirateria danneggia il mercato e scoraggia gli investimenti. La rete deve continuare ad essere libera. Ma ciò non significa il permesso di rubare». L’Acta è stato siglato a Tokyo il 26 gennaio 2012 tra 22 dei 27 Stati membri dell’Unione europea tra cui l’Italia. Ma il Parlamento europeo, chiamato a ratificare l’accordo l’11 giugno 2012, lo ha respinto il 4 luglio 2012. Probabilmente, complice anche le proteste dei cittadini e di Anonymous (movimento per la libertà della rete) la votazione si concluse con una netta bocciatura: 478 voti contro, 39 a favore e 165 astenuti.
Da analizzare con attenzione il caso della Germania. Anche lo Stato teutonico, con la lex Google, vuole che gli aggregatori paghino. Ma potrebbe andare oltre. Dal 2016 Berlino metterà in discussione il principio di gratuita della rete. La Deutsche Telekom (compagnia delle tlc leader in Germania che controlla oltre il 60% delle connessione a banda larga) porrà dei limiti precisi al download su rete fissa. Per Nick Joan Van Damme, capo della filiale tedesca della Deutche Telekom, la maggioranza del pubblico paga per sussidiare la minoranza che usa quasi tutta la banda disponibile. Ecco che chi supererà il limita dei 75 giga dovrà scegliere: o pagare di più, oppure vedersi rallentata la velocità di connessione. «La neutralità della rete ha retto fino a quando la capacità delle connessioni è stata eccedente rispetto alla domanda. Ora non lo è più. Ed è necessario razionarlo», ha spiegato Van Damme.
Oltre la crisi e i problemi, nuovi modelli di business. I “diktat” sono qualità e integrazione carta-web
In Europa e Oltreoceano si cercano rimedi e soluzioni alla crisi dell’editoria. Ma soprattutto sta avanzando un nuovo modello di business basato sull’online a pagamento e sulla integrazione della carta con il web.
«Se crediamo in quello che facciamo, dobbiamo farci pagare. Altrimenti non avremo mai una prospettiva economica», ha affermato Mathias Dopfer, presidente e ad di Axel Springer, gruppo editoriale tedesco che ha fatturato 1,2 miliardi di euro, il 55% dei ricavi totali. «Il nostro giornale digitale è cresciuto del 50% negli ultimi due anni. Ma la carta sta andando nella direzione opposta. Abbiamo perso il 50% dei lettori negli ultimi dieci anni. E i ricavi pubblicitari sono arrivati ai livelli del 1982». Lo ha affermato Gerard Baker, direttore del Wall Street Jornual.
«Abbiamo 3 milioni di lettori online. Pagano solo i più assidui. E il progetto sta funzionando bene. Già da 2 anni che il New York Times si sta adattando a questa nuova sfida. Anche noi abbiamo sofferto la crisi. Ma non abbiamo risparmiato sulla qualità e non abbiamo licenziato nessuno», ha affermato Jill Abramson, prima donna direttore del Nyt.
Anche il Bild Zeitung, popolare quotidiano tedesco, sarà parzialmente a pagamento. Il modello è simile a quello del Nyt. Ovvero si potrà continuare a leggere gratis gli articoli. Poi chi vuole accedere a più contenuti o ne vuole di particolari (una sorta di contenuti “premium”) deve pagarli. E per costruire il nuovo Bild ci sarà una sola redazione. La quale lavorerà sia sulla carta che online.
Ma, al di là di tutto, c’è una considerazione finale da fare: gli utenti saranno disposti a pagare di più per una informazione più approfondita? Sembra questo il nodo cruciale dell’editoria del futuro. Oppure, complice la crisi economica, i nuovi lettori, abituati a non pagare per le notizie, preferiranno accontentarsi delle news gratuite? È presto per dirlo. C’è chi crede negli internauti paganti. E chi preannuncia un imbarbarimento del sistema: un mondo in cui, incuranti del rapporto qualità-prezzo, si punta direttamente al prezzo più basso. O meglio a ciò che è gratis.
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