Il 13 gennaio scorso l’Advertising Standards Autority ha apertamente accusato BuzzFeed, la piattaforma publisher che vanta 80 milioni di visualizzazioni al mese, di veicolare pubblicità ingannevole.
L’Autorità britannica ha ritenuto che il sito specializzato in marketing digitale abbia pubblicato un’inserzione dal titolo: 14 laundry fails we’veall experienced ma in realtà non è riuscita a comprendere se il messaggio confezionato ad hoc sia in realtà un articolo del magazine conosciuto per le sue carrellate di immagini.
L’accusa è quella di “mascherare” volutamente messaggi promozionali incuriosendo il lettore al quale vengono poi veicolati articoli veri e propri e quindi contenuti “ingannevoli”.
Il primo round di questa annosa vicenda è finito a favore dell’ASA made in UK che ha chiesto ed ottenuto la cancellazione della pagina, oggetto del contendere, costringendo BuzzFeed a rimuovere il testo che, attualmente, non è più visibile on line. Ma c’è già chi scommette che alla vicenda non sia stata scritta la parola “fine” e che, anzi, questo non è altro che il principio di una querelle destinata ad avere un lungo seguito.
E in effetti la replica della piattaforma che nel 2015 ha raccolto ben 1,5 miliardi di dollari, non si è fatta attendere.
BuzzFeed per difendersi ha dichiarato che il marchio pubblicizzato non era affatto nascosto ma ben visibile nella parte alta della pagina incriminata e di conseguenza non c’era alcuna intenzione di frodare gli utenti.
Il provvedimento dell’Autority inglese certamente è destinato a far discutere ed ha già ha provocato diverse reazioni.
C’e chi sostiene BuzzFeed ritenendolo così innovativo da rivoluzionare il settore mediatico e dell’advertising in modo estremamente redditizio proprio grazie ai ricavi generati dalla pubblicità nativa ma, dall’altro lato, ci sono le agenzie tradizionali preoccupate dell’ascesa di piattaforme come BuzzFeed e che non intendono avere un ruolo marginale nel settore editoriale, convinte che grazie alla qualità dei contenuti siano ancora in grado di essere competitive e di dare grande visibilità a chi decide di investire in pubblicità affidandosi soprattutto ai giornali.
Fuorviante o no, anche negli States la potente Federal Trade Commission sembra aver dichiarato guerra alla pubblicità nativa che stenta a decollare.
Il mese scorso l’Autorità made in USA ha diffuso misure restrittive per regolamentare qualsiasi forma di pubblicità nativa andando ad intaccare interessi di quotidiani come il New York Times, Mail Online e The Guardian che da anni la utilizzano connessa ai contenuti digitali a pagamento.
Nonostante tutte le difficoltà, secondo la prestigiosa società di ricerche di mercato Emarketer in America nel 2015 le aziende a stelle e strisce hanno investito circa 5 miliardi di dollari in pubblicità nativa, ritenendo le agenzie obsolete e non altrettanto efficaci a fidelizzare soprattutto il target dei giovani under 30.
Molti editori di Oltreoceano si sono già schierati contro la FTC perché guardano alla pubblicità nativa come ad un’opportunità da non perdere, capace di convogliare nelle proprie casse milioni di dollari.
E quando ci sono interessi così grandi da proteggere, è lecito pensare che la dichiarazione di guerra fatta a BuzzFeed sia solo l’inizio di un capitolo ancora tutto da scrivere.
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