ASSANGE: «ABBIAMO CONTRO ENTITÀ POTENTISSIME MA WIKILEAKS PUÒ VINCERE»

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Il fondatore del sito più temuto dai governi di mezzo mondo, Julian Assange è chiuso nell’angolo: tra pochi giorni rischia di venire estradato in una cella svedese, la sua organizzazione soffre per l’embargo delle carte di credito alle donazioni e per le pressioni di tutte le potenze. Ma gli occhi di Mister WikiLeaks, ancora più delle sue parole, fanno capire che non ha nessuna intenzione di arrendersi: pensa continuamente alla sua rivolta mediatica, una guerriglia che alterna rapide incursioni in cui lanciare milioni di documenti segreti a lunghe pause.
In un locale del centro di Londra, davanti a un cappuccino bollente, discute con “l’Espresso” della sua vita e del futuro della sua creatura. Con una convinzione: «WikiLeaks andrà avanti. Anche quando sono stato arrestato, è riuscita a non fermarsi diffondendo altri file top secret. E’ un’organizzazione robusta ma, ovviamente, se riuscissero a togliere di mezzo il fondatore e la persona più nota a livello pubblico, anche WikiLeaks subirebbe parecchi danni. Io credo che la struttura operativa del gruppo sia solida: anche senza di me, potrebbe sopravvivere per almeno un paio di anni. Forse non con lo stesso vigore, ma trasmettendo comunque l’immagine di un’istituzione che non si paga».
«WikiLeaks ha contro una lista di entità potentissime, irritate per le cose che abbiamo smascherato sul loro conto negli ultimi due anni. Quei potentati stanno facendo di tutto per eliminarci: cause legali, manovre politiche, campagne mediatiche e il blocco delle donazioni. Ciascuno di questi problemi va affrontato singolarmente. Richiede moltissimo lavoro, ma ritengo che, ad oggi, noi abbiamo vinto: siamo riusciti a pubblicare la maggior parte del materiale più significativo che avevamo raccolto. L’impegno con le fonti che ce lo hanno inviato è stato rispettato. Ma detto ciò, gli attacchi contro di noi sono potenti e sempre in corso».
DOMANDA:
Dietro il successo di WikiLeaks c’è anche una sua invenzione: una piattaforma Internet sicura che garantiva l’anonimato a chi inviava documenti scottanti. Adesso questa casella sicura è stata smantellata. E siete sempre più nel mirino dei servizi segreti e delle aziende di sicurezza di tutto il mondo: una sorveglianza che tiene lontane le persone che vorrebbero consegnarvi dossier. Non temete che così poco alla volta le vostre rivelazioni diventeranno sempre più deboli?
«Abbiamo vari sistemi per raccogliere documenti: è una semplificazione credere che tutto dipenda dalla piattaforma Web anonima. E stiamo creando un nuovo modello di protezione per le fonti come la rete “Friends of WikiLeaks” che permetterà uno scambio di informazioni ancora più largo e sicuro».
DOMANDA: WikiLeaks sta anche soffrendo per il blocco di finanziamenti. Come pensate di sfuggire all’embargo delle donazioni provenienti dalle carte di credito?
«Abbiamo fatto ricorso alla Commissione europea sette mesi fa. A Bruxelles dicono che stanno indagando e che non si sono dimenticati di noi: decideranno se annunciare un’inchiesta formale. Nel frattempo siamo passati al contrattacco, iniziando una causa legale contro l’intermediario della Visa in Islanda. In alcuni casi sono stati i donatori stessi a fare causa alle carte di credito che hanno impedito di versare fondi per sostenere WikiLeaks. E’ successo per esempio in Colombia, perché i possessori di carte si sono sentiti violati nei loro diritti di associarsi liberamente a un’organizzazione».
DOMANDA: Le difficoltà nascono anche dalla scelta di caratterizzare WikiLeaks come una rete molto aggressiva, che pubblica tutto senza compromessi secondo uno schema inedito. Si è mai pentito di avere fatto di WikiLeaks un’organizzazione di guerriglia mediatica?
«Se avessimo scelto di essere un’organizzazione che pubblica documenti come qualsiasi giornale, avremmo avuto tutti i limiti legali ed economici che hanno i giornali. Se quei vincoli alla possibilità di pubblicare atti segreti non fossero esistiti, non ci sarebbe stato bisogno di WikiLeaks: se ci siamo noi è perché da questo punto di vista le organizzazioni tradizionali hanno fallito. La colpa non è necessariamente loro, ma va cercata in questioni storiche che non possono essere facilmente rimosse. Noi vogliamo fare una cosa molto semplice: raccogliere, pubblicare e difendere informazioni che sono significative per la vita delle persone. Si potrebbe pensare che sia una questione elementare, invece è un’impresa difficile. Perché ancora oggi ci sono tante istituzioni e individui che traggono il potere dalla situazione di ignoranza sulle loro attività in cui viene mantenuta la gente».
DOMANDA: Trent’anni fa chi voleva far pubblicare i documenti segreti del Pentagono sul Vietnam si rivolse al “New York Times”. Oggi invece i dossier vengono consegnati a WikiLeaks…
«Se oggi una fonte vuole davvero far uscire una storia ad alto rischio e va al “New York Times”, allora è pazza, a meno che non conosce il singolo giornalista come un buon giornalista. Andare dall’istituzione è insensato: abbiamo visto come censurano le storie ed espongono le fonti».
DOMANDA: Oggi la minaccia legale più grave contro WikiLeaks, che potrebbe coinvolgerla direttamente, è il processo a Bradley Manning: il soldato accusato di avervi passato i documenti più esplosivi, dai rapporti segreti dal Pentagono ai cablo del Dipartimento di Stato. Nelle udienze è emerso che i procuratori americani avrebbero le prove in grado di dimostrare che lei ha aiutato Manning a forzare le reti informatiche del Pentagono per prelevare i documenti…
«Gli avvocati di Manning durante le udienze preliminari hanno affermato che sia all’inizio del processo sia nel corso di esso il Dipartimento della Giustizia Usa e l’Esercito hanno fatto pressioni su Manning affinché coinvolgesse WikiLeaks e me personalmente. Anche la rete di attivisti che sostengono Manning e che gli hanno fatto visita nelle fasi più dure della prigionia a Quantico in Virginia, hanno detto che quella detenzione era una forma di tortura psicologica per estorcere una confessione. Ora quelle condizioni sono cambiate, sia grazie alle pressioni degli attivisti che alle nostre».
DOMANDA: Crede che il processo a Manning sarà equo o è convinto che verrà trasformato in un caso esemplare per mandare un messaggio a tutte le altre fonti che possono essere tentate di aiutarvi?
«Come tutti i sistemi basati sulla coercizione, le autorità americane faranno affidamento su una serie di casi esemplari. E Manning è uno di questi casi. La cosa interessante è che sotto il presidente Obama gli Stati Uniti hanno incriminato più fonti di quanto è accaduto sotto tutte le altre amministrazioni Usa messe insieme. Questo può nascere da due ragioni. O il governo Usa sta diventando totalitario nella sua struttura. Oppure adesso fa cose che prima non osava per paura delle fughe di notizie e delle persone che si ribellano alla sua autorità. Io non ho una risposta, ma è qualcosa su cui vale la pena riflettere».
DOMANDA: Ma con George W. Bush e le misure emergenziali varate dopo l’11 settembre la vostra situazione sarebbe stata peggiore…
«No, anzi penso il contrario. L’amministrazione Bush sarebbe stata molto più cauta rispetto a Obama. Bush ha catturato persone e le ha rinchiuse a Guantanamo e in altre prigioni senza alcun processo. Ora il governo di Obama non si preoccupa nemmeno di catturarle, semplicemente le elimina con i droni e altri metodi e fa così anche con persone che hanno la cittadinanza americana. E’ una politica ancora più severa di quella di Bush. E perché avviene questo? Forse è una tendenza del governo o forse questo succede perché con i democratici al potere e i repubblicani all’opposizione, non c’è forza che possa arginare quello che fa l’Amministrazione in materia di diritti umani e civili. Se i democratici fossero stati all’opposizione, avrebbero contestato questi abusi per guadagnare un vantaggio politico».
DOMANDA: Quindi lei si aspettava una linea dura da Barack Obama? Eppure è uno dei pochi presidenti che non ha avuto rapporti con il complesso militare-industriale e che non viene dalla Cia.
«Sì, me lo aspettavo, anche se non immaginavo che sarebbe avvenuto a questa velocità. Prima che Obama fosse eletto aveva già cambiato idea sull’immunità alle compagnie telefoniche che avevano spiato illegalmente i cittadini: già allora ho pensato “questo non è un uomo di principio”. Leggendo i suoi libri si capiscono due cose. Il valore fondamentale è quello del compromesso, crede che sia una virtù. E il suo unico interesse è la situazione economica delle classi povere nere. Ma un politico che pone al primo posto il compromesso, quando arriva alla Casa Bianca scende a compromessi con le forze che gli stanno intorno: le più potenti sono quelle del complesso militare-industriale. Forze che lui non sta comandando. Forse se fosse venuto da quell’apparato, probabilmente, ne avrebbe avuto una maggiore comprensione: invece Obama non lo conosce, non lo capisce e non lo può controllare».
DOMANDA: Un altro potere forte mondiale sono le banche. Voi avevate annunciato la diffusione di documenti su un grande istituto, ma non si sono mai visti…
«Probabilmente si riferisce a quelli sulla Bank of America?».
DOMANDA: Quindi conferma che avevate documenti sulla Bank of America?
«Sì».
DOMANDA: Erano rilevanti?
«Avevamo fatto solo una valutazione preliminare, ma erano materiali che venivano da un membro dell’esecutivo della Bank of America. Uno dei nostri volontari, Daniel Domscheit Berg (l’ex portavoce che ha lasciato l’organizzazione in polemica furiosa con Assange, ndr.) che doveva custodirli, pare li abbia distrutti. Abbiamo trattato per un anno per riaverli, ma non ci siamo riusciti. Possiamo solo sperare che la fonte originale abbia ancora in mano qualcosa e decida di renderla pubblica».
DOMANDA: Lei poteva essere un brillante creatore informatico con una sua azienda nella Silicon Valley. Ma, come disse a “Der Spiegel”, ha scelto “di aiutare le persone deboli e fare a pezzi i bastardi”. Crede ancora di avere fatto la scelta giusta?
«Oh, assolutamente sì! L’ultimo anno è stato veramente duro, ma in ogni caso noi siamo profondamente soddisfatti, perché siamo riusciti a realizzare le cose più importanti che avevamo promesso di fare: abbiamo vinto la parte più rilevante della nostra battaglia con il Pentagono e il Dipartimento di Stato e pubblicato le informazioni che volevamo diffondere. Questo è ciò che chiamo “fare a pezzi i bastardi”. E ne sono pienamente soddisfatto».
DOMANDA: Si narra che lei recentemente avrebbe chiesto a un agente dei servizi segreti non identificato: “Sarò mai più un uomo libero, rivedrò mai il mio Paese?”. L’agente le avrebbe risposto letteralmente: “Sei fottuto”. E’ una storia vera o una delle leggende su Assange?
«Sì, è vero. Ma noi di WikiLeaks abbiamo tre diverse fonti che parlano di un atto di incriminazione delle autorità americane nei miei confronti: ne eravamo a conoscenza prima che venissero rivelate le mail di Stratfor con la stessa informazione».
DOMANDA: Quindi tre fonti diverse sostengono che lei è “fottuto”?
«Sì (ride con un misto di nervosismo), ma la storia recente dimostra che non è facile vincere contro WikiLeaks».

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