Editoria

A volte non serve essere economisti per farsi un’idea su come far ripartire il Paese

Non è un sito di economia; e chi scrive non è un economista. Ma per quanto possa sembrare strano, alla fine l’economia si basa su alcune variabili semplici.

Il debito pubblico è rappresentato dal debito dello Stato. Il Pil, ossia il prodotto lordo interno, è il livello di produzione nazionale. Il pareggio di bilancio è legato all’equivalenza tra la spesa pubblica e gli interessi sul debito e le entrate, rappresentate da tasse e dividendi erogati da società private partecipate da enti pubblici. C’è avanzo primario di bilancio se la spesa corrente è inferiore alle entrate correnti. Avanzo secondario calcolando anche gli interessi passivi. Chiaramente un eventuale disavanzo incrementa il valore del debito pubblico. Fino a qua tutto semplice. Dato il debito pubblico iniziale, quindi, le variabili sono il tasso di interesse sul debito pubblico, il Pil, la spesa corrente, le entrate tributarie e i dividendi da aziende pubbliche. Il tasso di interesse sul debito pubblico è connesso alla fiducia che gli investitori rispetto alla capacità di rimborsare i buoni emessi e, chiaramente, dal rapporto debito pubblico Pil.

Negli ultimi anni le due leve utilizzate in Italia sono state la riduzione della spesa pubblica, partita con i tagli lineari di Tremonti e poi proseguita incessantemente da tutti i Governi successivi. L’altro elemento su cui è sempre stata posta l’attenzione è il gettito fiscale. E tutti i Governi hanno ipotizzato il recupero di imponibile attraverso imponenti misure di contrasto all’evasione fiscale. I dividendi delle società pubblica sono del tutto residuali, attese le incredibili dismissioni delle partecipazioni pubbliche fatte negli ultimi anni. Tagli alla spesa pubblica, lotta all’evasione fiscale e privatizzazioni sono le costanti di tutti i Governi che si sono succeduti negli ultimi anni. Con modalità diverse, con dichiarazioni di intenti diverse, ma questo è.

I risultati sono i tagli alla sanità, alla ricerca, alle garanzie democratiche; un sistema fiscale che nasce per contrastare l’evasione e non per far pagare correttamente le imposte a chi le deve pagare; la dismissione di tutte le partecipazioni pubbliche che possono garantire flussi di dividendi nel tempo, per ottenere piccole plusvalenze che risolvono i problemi dei bilanci dello Stato di un solo anno. Il tutto in un torbo nugolo di burocrazia che blocca il Paese.

Siamo il paese con più abusivismo edilizio al mondo; ma nessuno dice che siamo il Paese al mondo nel quale è così difficile fare qualsiasi intervento edilizio. L’attrazione di tutte le sanzioni nella sfera penale serve a creare colpevoli, non a risolvere i problemi. I tempi della giustizia e le modalità con cui viene esercitata sono state, semplicemente, sanzionate dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. E certo non sono un attrattore di investimenti. Ma d’altronde la stessa giustizia è vittima dei tagli. Eppure, quanta poca attenzione agli effetti dei tagli alla spesa, del contrasto all’evasione fiscale attraverso norme che rendono difficilissimo il corretto adempimento delle obbligazioni tributarie e alle dismissioni random delle partecipazioni e del patrimonio pubblico!

Come se questi fattori non fossero direttamente correlati alla scarsa crescita del Pil negli ultimi anni rispetto a tutti gli altri Paesi dell’Unione europea, che, comunque, sono cresciuti meno degli altri Paesi. Se ci fossero state politiche rivolte allo sviluppo, che avessero attratto gli investimenti, e che avessero tenuto conto che ogni taglio della spesa pubblica ha, comunque, un impatto negativo sul Pil, questo sicuramente sarebbe cresciuto di più. Il che avrebbe significato un minor rapporto tra debito pubblico ed il Pil, con minori tassi di interesse da pagare sul debito stesso. E un maggiore incasso da parte del Fisco per l’evidente correlazione tra Pil e imponibile fiscale. Il che significa incrementare le entrate e, conseguentemente, l’avanzo di bilancio; o ridurre il deficit. E se ancora si fosse intervenuto sulle grandi imprese in crisi con una politica di partecipazioni pubbliche razionale si sarebbe potuto ricostituire quel quadro di grandi imprese pubbliche, alla base del boom economico degli anni sessanta, modello studiato in tutto il mondo, fino a che gli echi di tangentopoli hanno indotto una mediocre politica a risolvere il problema chiudendo decine di eccellenze e cedendo a valori bassissimi le imprese appetite sul mercato.

Negli ultimi anni trenta anni l’Italia è riuscita a mettere in crisi un modello di banche pubbliche che aveva retto l’economia dell’Italia, prima e dopo l’Unione per circa mezzo millennio. Per ripartire serve coraggio ed azzerare tutte le affermazioni che hanno fatto moda negli ultimi anni. L’obiettivo non deve essere tagliare la spesa pubblica, ma spendere bene i soldi dello Stato, investendo senza riserve in tutti i settori cruciali per l’efficienza dell’economia, della tutela dei cittadini e del mantenimento delle istituzioni democratica; nel fisco lo Stato deve scrivere le norme avendo come obiettivo quello di far pagare alle imprese ed ai cittadini le imposte: che senso hanno l’Imu, la Tari e la Tasi, che senso hanno le addizionali regionali e comunali sull’Irpef, che senso ha l’Irap se esiste l’Ires? E la determinazione delle imposte deve essere certa, le norme devono essere puntuali, di semplice lettura; e il pagamento deve essere agevole.

Il più grande alleato dell’evasione fiscale è il Fisco italiano. La cassa integrazione è una misura onerosa per lo Stato e mortificante per i lavoratori; lo Stato entri nel capitale delle società in difficoltà per riconvertirle, per ristrutturarle, gestisca in attesa di vendere, se c’è un acquirente disponibile ad acquistare ad un prezzo conveniente; o incassi i dividendi; in un eventuale pareggio il primo utile sarebbe la cassa integrazione non pagata. Lo Stato non deve fare concorrenza alle imprese sul mercato, se il mercato funziona; ma quando il mercato non funziona è meglio un intervento pubblico che un monopolio privato.

Serve un condono fiscale, un azzeramento del passato, un’amnistia per far ripartire la giustizia. Serve un condono edilizio: che preveda lavori per garantire la staticità delle costruzioni, il rispetto delle normative antisismiche. Ma normative semplici, di facile applicazione. E serve che la burocrazia venga messa al servizio delle imprese e dei cittadini e che non siano le imprese ed i cittadini ad essere al servizio della burocrazia. Per fare questo ci vuole il coraggio che solo una politica nuova può avere. Una politica composta dalle eccellenze del Paese e che rivendichi il rispetto che l’eccellenza merita; una nuova classe dirigente che venga remunerata in maniera adeguata, sia messa al riparo da attacchi estemporanei della magistratura che ne mina la credibilità su tesi poche credibili. Ripartire si deve. Ma si deve andare oltre gli slogan che abbagliano il popolo e poi lo affamano.

Enzo Ghionni

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