Equo compenso, grandi piattaforme e i produttori di contenuti: la questione va spostata su altri tavoli

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In relazione all’equo compenso, ossia al prezzo che le piattaforme dovrebbero riconoscere agli editori per l’utilizzo dei loro contenuti, il Consiglio di Stato ha ribaltato la sentenza del Tar che aveva sospeso l’efficacia della delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, dando ragione a Meta. Su tutti i giornali grandi plausi alla decisione del Consiglio di Stato che con questa sentenza avrebbe ristabilito le condizioni per la sopravvivenza dei produttori di contenuti.

La sentenza (che trovate in coda all’articolo ndr) andrebbe letta e contestualizzata. La famosa, anzi oramai famigerata, delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni è stata una semplice riproposizione delle norme contenute nel decreto legislativo 177 del 2021, con cui il legislatore italiano ha recepito una direttiva dell’Unione del 2019. In realtà, il ricorso di Meta ha una valenza molto ampia in quanto, oltre a contestare la normativa in tema di equo compenso, la piattaforma ritiene non legittimo l’obbligo di iscriversi al Roc, quello di inviare dati sensibili all’Autorità nazionale e di contribuire alle spese di funzionamento della stessa. In altri termini, Meta, sulla base del principio indiscutibile della libertà di stabilimento, prevede un discutibile diritto di disapplicazione delle normative nazionali. Ma il vero tema che emerge, solo in parte, dalla sentenza del Consiglio di Stato che, giustamente, si è limitata alle questioni giuridiche è che Meta ha ribadito che i giornali pubblicano i loro post su Facebook per promuovere i propri contenuti on line autonomamente. Anzi, a volerla proprio dire tutta, spesso i giornali pagano per essere posizionati bene e, conseguentemente, per incrementare la propria visibilità. E nonostante il potere dello Stato italiano, come di tutti gli altri Stati, di disciplinare, favorendo anche accordi di natura privatistica, come in questo caso, la forza di questi altri Stati, che sono le piattaforme, è superiore. Meta ha chiuso le sezioni news in Francia, Germania, Gran Bretagna, Australia e Canada. Se uno Stato può imporre di contrattare per riconoscere un equo compenso sui ricavi conseguiti, non può certamente entrare nel merito delle politiche commerciali di imprese private. Chi potrebbe obiettare alcunché alle grandi piattaforme se decidessero di deindicizzare i contenuti prodotti proprio da quegli editori professionali potenzialmente tutelati dalle norme in materia di equo compenso?! E se le piattaforme obbligassero gli stessi editori a remunerare come equo compenso la possibilità di postare i contenuti sulla base di un accordo contrattuale, chi potrebbe eccepire un patto del genere? Nel 2019, quando fu emanata la direttiva comunitaria, l’intelligenza artificiale era un futuro remoto. Nel 2024, dopo cinque anni, è una realtà. E su quella realtà i grandi attori del web stanno costruendo i pilastri del loro futuro, consci di poter acquisire un enorme potere per condizionare l’opinione pubblica. Il pluralismo non serve alle piattaforme perché chi ha il potere non vuole differenze o, meglio, vuole costruirsele a sua immagine e somiglianza. E le piattaforme, società private alla ricerca del profitto, sono il potere sul web. La strada per affrontare questo futuro è la piena consapevolezza che questo è. Di sicuro, non saranno le carte bollate o certo le Autorità nazionali a risolvere questi problemi. Davide era un gigante rispetto a Golia, al confronto. L’unica strada è intervenire direttamente sui ricavi, sui profitti, per ridistribuirli tra chi produce contenuti sulla base di criteri di massima trasparenza e regolati per legge. Prima che sia troppo tardi e che l’intelligenza artificiale ci renda tutti artificialmente eguali. In nome della libertà delle piattaforme.

 

ECCO LA SENTENZA

Meta – Agcom ordinanza Consiglio di Stato

 

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