“Carta da c**o, parassiti, pennivendoli”. Tredici (e più) anni di guerra del M5S alla stampa

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Una battaglia lunga, una furia cieca. Il Movimento Cinque Stelle non ha mai fatto mancare strali, pesantissimi, ai giornali. Per capire da dove arrivi l’accanimento dei pentastellati al governo contro l’informazione italiana basta fare qualche ricerca online.

La “letteratura” sul tema è vastissima, si va dalle offese a giornalisti dissonanti, a casi singoli sulle notizie o sulle opinioni e fino alla ben poco democratica gogna del “giornalista del giorno”. Passando per le compilation delle testate prenditrici, dati e classifiche girate e rigirate, spremute al massimo.

Il tema dei “contributi” pubblici è, almeno dagli anni ’90, sinonimo di clientela politica. Un luogo comune che i M5S hanno cavalcato fino allo spasmo mentre una classe dirigente, quella della Seconda Repubblica, si dimostrava pavidissima e inconsistente nel difendere i presidi minimi di democrazia in un Paese che, come l’Italia, ha da sempre la tentazione della “cricca”.

Il 20 dicembre 2013, i Cinque Stelle – che hanno conservato tutto, gelosamente, sulle bacheche e nell’archivio del loro nuovissimo e compassato “Blog delle Stelle” – scrivevano: “I soldi per l’editoria e per i giornali asserviti non mancano mai. Anzi, nel 2013 aumentano. E’ il miracolo italiano di Capitan Findus Letta (Enrico, allora presidente del consiglio ndr): il rilancio della carta stampata. Un mercato che sta scomparendo in tutto il mondo, ma che in Italia, grazie alla lingua sovrasviluppata di una classe di pennivendoli, non conosce freni. […] Siamo al 70simo posto per la libertà di stampa nel mondo grazie a una serie di sovvenzioni dirette e indirette, all’occupazione militare dell’informazione.Le ricche elemosine di Stato per il 2013 non sono ancora note nel dettaglio”.

Come dimenticare quando, nel 2014, l’allora piattaforma intestata a Beppe Grillo lanciò il memorabile slogan “Giornali come i Dodo”, raccontando (quasi sul filo dell’esultanza) la chiusura delle testate giornalistiche, sbandierando il dramma di chi perdeva il lavoro: “Il dodo era un uccello endemico dell’isola di Mauritius, diversamente dagli altri uccelli non volava e viveva beato in un ecosistema isolato. Poi l’ecosistema mutò, l’isola venne popolata da altre specie, ma il dodo non riuscì a evolversi e stare al passo con i tempi. Un po’ come i giornali di oggi finanziati dallo Stato. Il mondo dell’editoria è cambiato. I giornali iniziano a scomparire, a partire da quelli assistiti”.

Scavando, ecco che spunta un post dal 2010. Dove alcun giornali, in verità senza nemmeno troppa originalità, sono definiti “carta da culo”. “Basta con i soldi pubblici ai giornali per ascoltare le opinioni personali di Ferrara (Foglio) o Polito (Il Riformista) o per dar fiato a Mastella, a Fini o a Bersani o per essere usati per killeraggio politico o per pagare lo stipendio a Belpietro. I parassiti dell’informazione sono mantenuti ancora per un altro anno dalle nostre tasse grazie ai partiti, Fli in testa. Carta stampata neppure buona per pulirsi il culo”.

Sullo stesso post, poi, venivano messi in relazione i contributi (stimati in addirittura 330 milioni) e le mancate manutenzioni ambientali o a Pompei.

Oggi, a distanza di quasi dieci anni, risulta ironicamente profetico un altro contenuto apparso sul Sacro Blog, oggi conservato gelosamente nelle teche virtuali del “nuovo”. In cui si giochicchiava sulla “delocalizzazione” dei giornali: “Per salvare l’editoria italiana bisogna delocalizzarla. Tagliare i costi di produzione trasferendo il Sole 24 Ore, Libero, l’Unità e il Corriere della Sera all’estero. I giornalisti cinesi e rumeni possono sostituire i nostri a un decimo (forse meno) dello stipendio con l’ulteriore grande vantaggio di un’informazione più libera”. Fa specie leggere queste parole oggi che il governo Di Maio si scontra con il dramma, ad esempio, degli operai Whirlpool di Napoli che, proprio a causa delle delocalizzazioni, rischiano di perdere il lavoro.

Ma è da (almeno) il gennaio 2006 che la battaglia s’è fatta incandescente. In un post che denuncia la (presunta) “Editoria di Stato“, si pongono le basi della lotta, dura e senza quartiere, alla stampa. In poche righe, quelle finali poste a conclusione della prima “classifica” si legge l’atto d’accusa dell’ex Capo Beppe Grillo: “Il giornale lo voglio pagare in edicola, non con le tasse. I direttori dei giornali non devono essere dipendenti dei nostri dipendenti (quelli che si chiamavano politici). Basta con l’informazione assistita. Chiunque è capace di fare l’editore con i soldi degli italiani”.

L’elezione del mercato a giudice assoluto (lo stesso che si combatte sugli altri settori economici), il rapporto tra informazione e politica assunto quale deviato per forza (ma le idee informano la politica e i giornali sono gli strumenti per il dibattito), la lotta ai “carrozzoni di Stato” assistiti economicamente e la critica all’impresa che nazionalizza le perdite e privatizza i guadagni. Un guazzabuglio che, però, porta voti.

 

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