Il bilanciamento tra informazione e diritto all’oblio è uno dei temi ricorrenti nella giurisprudenza dell’ultimo decennio. Non stupisce, quindi, che sia arrivata un’altra pronuncia pronta a rimescolare le carte in questa complicata partita di interessi. Il caso specifico, come riportato dal Sole 24 Ore, è molto risalente e riguarda un omicidio familiare avvenuto nel 1982. L’autore, che ha scontato una pena di dodici anni di reclusione, ritiene di aver subito danni psicologici e patrimoniali a causa di un articolo pubblicato nel 2009. La Corte di Cassazione ha emesso una ordinanza a riguardo, in cui sollecita l’intervento delle Sezioni Unite. La pronuncia è particolarmente importante poiché prende le distanze da un’altra ordinanza della Corte, di pochi mesi fa, in cui venivano precisati i motivi per cui il diritto all’oblio dovrebbe essere leso da quello alla cronaca. Le discordanze in seno ai due provvedimenti e l’appello alle Sezioni Unite non fanno altro che evidenziare la complessità di una materia che sembra aver bisogno di criteri inequivocabili di riferimento.
Il diritto all’oblio si sostanzia nella facoltà dell’interessato di chiedere al titolare di una testata giornalistica o di un motore di ricerca la cessazione del trattamento dei propri dati personali, quando questi ultimi non abbiano più interesse per la collettività. Viene esercitato per evitare che i singoli vedano leso il diritto alla loro privacy senza giustificazioni fondate. La richiesta presuppone, pertanto, che sia passato molto tempo dall’avvenimento di potenziale interesse. Discriminante fondamentale da valutare in relazione al diritto d’informazione è la sussistenza dell’interesse pubblico alla diffusione della notizia. Ad esso si affiancano una serie di requisiti, che sono attinenti in senso generale alla corretta esplicazione del diritto alla cronaca e alla critica: la verità dei fatti narrati, l’obiettività nell’esposizione e il pubblico interesse. Entrando nello specifico i parametri delineati dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza 6919/2018 sono il contributo arrecato dalla notizia al dibattito pubblico, l’interesse effettivo alla diffusione della stessa e la notorietà delle persona interessata. Occorre fare alcune precisazioni in merito. Il contributo all’interesse pubblico dipende dall’attualità delle vicende in esame. Tuttavia fatti risalenti possono tornare in auge, senza essere ingabbiati dal diritto all’oblio, nel caso in cui siano connessi ad avvenimenti più recenti. La notorietà dell’individuo interessato è legata all’importanza della carica pubblica che egli riveste nella società. Pertanto, se la notizia è connessa al ruolo dell’interessato è sicuramente protetta dal diritto all’informazione. La sussistenza dell’interesse pubblico è legata, come detto, al fattore temporale. Ma ci sono stati casi in cui la giurisprudenza penale ha ritenuto sussistente il diritto all’informazione, in ragione della gravità di taluni reati.
Altro punto importante da chiarire è che l’esercizio del diritto all’oblio non riguarda la cancellazione delle notizie in esame, ma la loro deindicizzazione ai fini di una diminuzione della reperibilità. L’amplificazione della diffusione delle notizie su Internet rende molto più probabile il reperimento di notizie potenzialmente lesive dell’onore e della reputazione di un soggetto. Non è un caso che Google, principale motore di ricerca mondiale, sia al centro dei processi riguardanti tale diritto. Big G deve attenersi ad una storica sentenza della Corte di Giustizia, risalente al 2014, che conferisce a chiunque la facoltà di chiedere la rimozione di link verso informazioni ritenute inaccurate, inadeguate, rilevanti o eccessive.