Cassazione, illegittimi perquisizione e sequestro ai danni del giornalista Marco Lillo

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E’ arrivata nei giorni scorsi una importante pronuncia giurisprudenziale sulla libertà di stampa. La sentenza, emessa dalla sesta sezione penale della Corte di Cassazione, riguarda nel concreto le perquisizioni all’interno dell’abitazione del giornalista Marco Lillo (Il fatto quotidiano) nell’ambito dell’ingarbugliato caso Consip. Le misure di ricerca e acquisizione della prova sono state effettuate in data 5 luglio 2017, sulla base di una presunta violazione del segreto di ufficio. Il materiale incriminato è contenuto in “Da padre in figlio”, libro in cui Lillo ricostruisce la vicenda Consip con riferimenti specifici al coinvolgimento di Tiziano Renzi, padre dell’ex primo ministro. Operazioni che, al fine, gli ermellini hanno giudicato ingiustificatamente lesive della libertà di stampa. Pertanto la Cassazione ha disposto la restituzione a Lillo di tutti i materiali sequestrati , vietando ai magistrati di trattenere copia dei dati acquisiti.
La massima della Suprema Corte chiarisce, quindi, che perquisizione e sequestro sono due misure sproporzionate nei confronti di un professionista dell’informazione, quando manca un legame probatorio tra il materiale sequestrato e l’oggetto dell’indagine. Affinchè il sequestro sia valido, aggiungono gli ermellini, non è sufficiente affermare che si tratti di atti relativi al libro che ha divulgato al pubblico la notizia segreta presumibilmente rivelata da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio. La sentenza chiarisce inoltre che non possono essere disposte misure di sequestro a strascico della corrispondenza o di comunicazioni se sussiste solo un nesso di pertinenzialità tra le notizie e il generico tema dell’indagine.
Non è la prima volta che la Cassazione interviene per dichiarare l’illegittimità di tali misure, che nel periodo intercorrente tra l’adozione delle stesse e il giudizio presso la Suprema Corte provocano dei rallentamenti alla corretta esplicazione della libertà di informazione. Si verifica in questi casi una intollerabile pressione sui giornalisti, che sovente si vedono costretti a violare le norme relative al segreto professionale per presunte esigenze di sicurezza. Ciò è previsto dalla legge, ma dovrebbe avvenire sulla base di presupposti stringenti che evidenzino la correlazione tra reato contestato e divulgazione delle informazioni. Il rapporto di riservatezza tra un giornalista e la propria fonte è fondamentale nell’ottica di un’informazione qualitativamente e quantitativamente di buon livello. E’ questo un dato di cui l’opinione pubblica, spesso influenzata da una scarsa considerazione della professionalità giornalistica, non tiene adeguatamente conto.
Punto di riferimento sul tema per la giurisprudenza è una sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, risalente al gennaio 2016 e inerente alla violazione della libertà di stampa in Turchia. La sentenza stabilisce che le perquisizioni nelle redazioni e il sequestro di materiale cartaceo e informatico disposto da autorità giudiziaria sono incompatibili con la CEDU. La Corte configura un danno alla collettività, dato dalla mancata divulgazione di informazioni di interesse generale. La libertà di stampa prevale su tutto ciò che non sia un caso eccezionale, derivante dalla presenza di un bisogno sociale imperativo, della cui sussistenza va data dimostrazione. La sentenza riconosce anche la necessarietà della protezione delle fonti giornalistiche, ritenute essenziali per l’adempimento delle finalità deontologiche del giornalista.

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