Caso ministra dell’integrazione Cecile Kjenge, fu diffamazione aggravata su Facebook

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Un cittadino italiano pubblicava sul proprio profilo di un noto social network un commento con cui ha inteso criticare l’intervento dell’allora ministra dell’integrazione Cecile Kjenge, sostenendo che le proposte da quest’ultima avanzate (ovvero di garantire alla popolazione zingara la possibilità di ottenere una casa del patrimonio immobiliare pubblico, la cittadinanza ed un lavoro) non erano per nulla condivise dalla maggioranza degli italiani, concludendo con la frase “rassegni le dimissioni e se ne torni nella giungla dalla quale è uscita”.

A tale commento è seguita la querela per diffamazione, atteso che la denunciante si è ovviamente sentita lesa nell’onore e della dignità personali, specie in un momento in cui il quadro di dileggio nei suoi confronti era piuttosto diffuso. Il Tribunale di Trento prima, e la Corte d’appello poi, condannavano l’imputato per il reato di diffamazione, aggravata dalle finalità di discriminazione razziale.

Proponeva ricorso per cassazione il condannato, sostenendo innanzitutto che tra il suo commento e le espressioni rivolte alla stessa Kjenge da altri (peraltro sempre evocanti la medesima aggettivazione animalesca) non v’era alcun punto di contatto, e sottolineando poi che la valenza idiomatica dell’espressione da lui utilizzata era equiparabile ad altri modi di dire di uso corrente ed utilizzati nel linguaggio comune (come, ad esempio, “torna tra i monti!”), da tutti compresi nel loro significato traslato o figurato ed utilizzati, con tono sarcastico, nei confronti di persone di cui si ritiene, a torto o a ragione, che dovrebbero occuparsi di altro, a prescindere dal colore della loro pelle.

La Suprema Corte, V sezione penale, con sentenza del 19 febbraio 2018, in linea con le conclusioni rassegnate dal P.G., ha respinto il ricorso.

I giudici di cassazione hanno infatti osservato che il legittimo esercizio del diritto di critica, pur non potendosi pretendere caratterizzato dalla particolare obiettività propria del diritto di cronaca, non consente comunque gratuite aggressioni alla dimensione morale della persona offesa e presuppone sempre il rispetto del limite della continenza delle espressioni utilizzate, da ritenersi superato nel momento in cui le stesse, per il loro carattere gravemente infamante o inutilmente umiliante, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato, la cui persona ne risulti denigrata in quanto tale.

Ciò premesso, il Collegio ha affermato che sussiste il delitto di diffamazione quando tale limite sia oltrepassato, trasformando il legittimo dissenso contro le iniziative e le idee politiche altrui, in una mera occasione per aggredirne la reputazione, con affermazioni che non si risolvono in critica, anche estrema, delle idee e dei comportamenti altrui, nel cui ambito possono trovare spazio anche valutazioni e commenti tipicamente “di parte”, cioè non obiettivi, ma in espressioni apertamente denigratorie della dignità e della reputazione altrui ovvero che si traducono in un attacco personale o nella pura contumelia.

Nel caso di specie, secondo i giudici di Piazza Cavour è indubbio che l’espressione di cui si discute, lungi dal rappresentare una radicale critica all’azione politica della ministra, è trasmodata in un vero e proprio attacco gratuitamente umiliante nei confronti di quest’ultima ed inutilmente denigratorio della sua dignità, intesa come percezione, innanzitutto, della propria dimensione umana, e della sua reputazione. Non, quindi, di una censura sugli obiettivi politico-amministrativi perseguiti dalla persona offesa si è trattato, ma di un attacco personale, che, facendo leva sulle origini africane della Kyenge, le ha attribuito caratteri propri degli esseri che vivono nella giungla (dove l’imputato la invitava a fare ritorno).

Il fatto che la Corte di merito abbia inquadrato il commento dell’imputato nell’ambito di una polemica politica allora in atto (definita in sentenza “sguaiata”), che ha visto quale vittima proprio la Kyenge, da altri assimilata ad una scimmia antropomorfa, non costituisce una illogicità. Dunque evidente è la concezione sottesa allo sprezzante “invito” , teso ad allontanare la persona offesa dal contesto degli uomini civilizzati. Secondo la Corte di legittimità, allora, appare del tutto superfluo stabilire se l’imputato avesse voluto assimilare o meno la Kyenge ad una scimmia, come ritenuto dai giudici di merito, peraltro con logico argomentare, posto che l’affermazione dell’imputato va collocata nel contesto mediatico, sorto intorno alle dichiarazioni di un senatore sulla somiglianza della Ministra ad un “orango”, non a caso riportate dallo stesso imputato nel testo inserito nel suo profilo.

Quel che rileva, infatti, è l’evidente e gratuito giudizio di disvalore espresso dall’imputato, fondato sull’appartenenza della Kyenge alla razza degli africani di pelle nera, che, secondo costui, ha nella giungla e non nella società civilizzata, il suo habitat naturale, per ragioni storiche ovvero perché assimilabile agli animali, come le scimmie, che ivi vivono.

Per queste specifiche ragioni la Corte ha pertanto ritenuto di condividere la decisione dei giudici di appello anche sulla sussistenza della circostanza aggravante, della diffamazione per ragioni di discriminazione razziale. Tale circostanza, data dalla finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso è infatti configurabile non solo quando l’azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell’accezione corrente, ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, non avendo rilievo la mozione soggettiva dell’agente, come nel caso in cui nelle espressioni denigratorie sia contenuta la parola “negro”.

Fonte: Massimario G.A.R.I.

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