Aziende nel web, un ranking da Serie B

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Le aziende di casa nostra non sanno comunicare. Riescono a soddisfare ben poco esigenze e richieste del mercato, dei consumatori, degli investitori, dei giornalisti, di chiunque abbia in qualche modo interesse ad interfacciarsi con il loro mondo e i loro prodotti. Va male per i grandi gruppi, ancor peggio per quelli di medie dimensioni, ed è notte fonda sul made in Italy che forse vive di rendita e ritiene superfluo farsi conoscere un po’ meglio

E’ quanto emerge, in modo impietoso, da alcune recenti ricerche, condotte per verificare la “salute mediatica” del mondo imprenditoriale italiano, sul fronte dei sistemi più innovativi, quali sono i siti web e l’universo della comunicazione on line, nonché il rapporto con i social network.

A condurre lo studio di maggior impatto è una società specializzata, la italo-svedese “Comprend-Lundquist”, che ogni anno redige una speciale graduatoria e stila una apposita classifica, il Webranking. Vediamo, in rapida carrellata, i poco confortanti dati relativi al 2015.

Il campione di aziende quotate in borsa è composto da 70 brand. Posto 100 il valore massimo, la “sufficienza” (50) è raggiunta da appena 12 imprese, e la metà non raggiunge quota 40, ben 20 sono sotto 30, bocciatura senza appello. In questo ultimo gruppo di “asini” del web, figurano big del calibro di Exor, Acea, Mediaset, Astaldi, Banco Popolare e Banca Popolare di Milano, Ray Way.

Tutta da “interpretare” la vetta della classifica, che per il 2015 vede primeggiare Eni (89,1), Telecom Italia (86,6) e Snam (85,9). Così commentano a piazza Affari.Di sicuro una buona comunicazione, quella di Eni. Ma non basta certo per rifarsi il lifting per le tante inchieste giudiziarie che ne offuscano pesantemente l’immagine, soprattutto quelle sul fronte internazionale, dall’Africa al Sud America, come lo scandalo Petrobras che tocca direttamente la sua controllata Saipem”.

Telecom è la vera sorpresa: comunica bene, e soprattutto è in testa alla speciale graduatoria del rapporto, molto importante con i social network. Il suo amministratore delegato Marco Patuano è in testa alla hit degli account più popolari su twitter, tra i manager italiani: ma ha appena perso il “posto”, sostituto da Flavio Cattaneo in vista dell’ingresso di Vincent Bollorè e dell’operazione con Mediaset”.

Notte profonda per quanto riguarda le aziende non quotate in borsa. Posto stavolta a 80 il punteggio massimo, su un campione di 50 brand nessuno raggiunge la sufficienza. A stento superano la soglia dei 40 punti solo due imprese, Sace e Granarolo, rispettivamente attestate su 41,4 e 40,7 punti. E appena altre 7 superano quota 30.

Sotto questa soglia di guardia – vale a dire nel regno della piena insufficienza – figurano big del credito (Banca Nazionale del Lavoro, Veneto Banca, Popolare di Vicenza), del settore alimentare (Barilla, Birra Peroni, Lavazza, Ferrero, Gruppo Illy, perfino la innovativa Eatitaly, tra i fanalini di coda con 9,1), dell’abbigliamento (Versace, e le tre pecore nere di fondo classifica, ossia Calzedonia con 8,9 punti, Dolce & Gabbana con 6,1 e Gruppo Armani con 5,8), dei trasporti (Enav, Alitalia), dell’industria (dai vip dell’acciaio Marcegaglia ai big del farmaco, Menarini, Dompè e Bracco). Incredibile ma vero, anche i pezzi da novanta della comunicazione “non comunicano” a dovere: Sky Italia raggranella appena 22 punti in classifica, per non parlare della Rai, tra le cenerentole del gruppo con un significativo 12,1.

Commenta il “CorrierEconomia”, che ha collaborato alla ricerca svolta dal super specializzato tandem svedese. Sul fronte delle aziende quotate a piazza Affari, ecco cosa scrive Massimo Sideri: “Due aziende su tre non passano il test. Non sono poche. Per quanto riguarda i social media, le imprese italiane continuano a utilizzarli in un’ottica ‘push’, cioè per promuovere contenuti aziendali e non per cercare un dialogo con l’esterno. Inoltre, solo una minoranza integra i ‘feed’ provenienti dai social all’interno del sito corporate”.

Mentre sul versante di quelle non quotate in Borsa viene osservato: solo 2 società su 50 hanno superato lo ‘stress test’ della comunicazione, andando oltre la metà del punteggio massimo, soglia che definisce quando un sito è in grado di soddisfare le richieste degli stakeholders. Delude il Made in Italy: le aziende alimentari e della moda si confermano i settori peggiori in assoluto”. Commenta l’animatore della società di analisi, lo svedese milanesizzato Joakim Lundquist: “Nonostante le tante crisi finanziarie e di reputation, e nonostante sia il portavalori dell’italianità in tutti i principali mercati del mondo, la moda italiana continua a permettersi il lusso di non comunicare.

Un’altra considerazione. Nonostante si sia portati a pensare il contrario, le aziende pubbliche, o comunque ancora a parziale “partecipazione statale”, comunicano meglio delle sorelle private.
Quando, una volta tanto, il pubblico funziona meglio del privato.

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