Misteri d’Egitto, con il giallo ancora bollente di Giulio Regeni, uno dei non pochi desaparecidos di “regime”, a quanto pare “stritolato – come nota la ricercatrice Sara Brzuszkiewicz – tra le maglie del mukhbarat e delle forze di sicurezza. Un Paese sempre più cloroformizzato dalla ‘non informazione’
Il potere egiziano spera che il Paese sia sempre fedele all’hizb alcanaba, il cosiddetto ‘partito del divano’, espressione usata in Egitto per indicare i milioni di persone che si fanno una propria idea del mondo basata solo su ciò che tivvù non libere raccontano, mentre loro restano passivamente seduti sui propri divani.
Del resto, cifre e statistiche su censura e libertà d’espressione parlano da sole. E in modo drammatico. Secondo il report “Freedom on the Net 2013” elaborato da Freedom House, l’Egitto è un Paese “non libero”, soprattutto su tali fronti. Impietosi anche i dati di “Reporters sans frontieres”, con un faticoso 158° posto in una graduatoria composta da 180 paesi passati ai raggi x, fanalino di coda in Nord Africa e tra gli ultimi in tutta l’area mediorientale. Da un’altra fonte – il “Committee to Protect Journalists” – arrivano ulteriori segnali d’allarme: l’anno scorso l’Egitto è stato secondo solo alla Cina per quanto riguarda il numero dei giornalisti messi in galera, triste primato raggiunto dopo aver stazionato l’anno precedente tra le prime dieci nazioni protagoniste in questa tragica hit.
Ma quali sono i meccanismi principali cui ricorrono le autorità per imbavagliare, nella migliore delle ipotesi, i giornalisti? Spiega Sara: “il primo è quello di una vera e propria censura, caratterizzato da una serie di controlli a tappeto su tutti i contenuti mediatici. Le misure adottate possono andare da una sospensione dall’incarico per quei giornalisti che non si mostrino sufficientemente ossequiosi nei confronti del governo, fino a una serie di multe di varia entità. Il secondo meccanismo è più sottile, perché si basa soprattutto sull’autocensura, introiettata da tutti gli operatori del settore per via del clima politico sempre più irrespirabile”.
La leva principale cui fa ricorso l’establishment è la “legge antiterrorismo”, ottimo strumento per reprimere ogni libertà e ogni voce che osi dissentire dal coro ufficiale, ed entrata in vigore l’estate 2015: prevede, fra l’altro, un vademecum’, diffuso dal Ministero degli Esteri, che obbliga i giornalisti stranieri a non usare parole come “Stato islamico”, “Islamisti” o “Fondamentalisti”. Una delle norme cardine, al suo interno, stabilisce fortissime pene pecuniarie, comprese fra i 23 mila e i 57 mila euro, per chi – in tema di sicurezza – diffonda notizie difformi o comunque non perfettamente in linea con quelle diramate ufficialmente dai ministeri della Difesa e degli Interni, ad esempio “numeri falsi” sulle “vittime ufficiali degli attacchi terroristici”.
Per la serie: veline di Stato, e se non le ingoiate pagate di tasca vostra, anche 50 mila euro e passa! Una vera spada di Damocle su tutti i giornalisti, e soprattutto per le piccole testate, per i free lance, per giornali on line e per i blog, tutti ormai ridotti al silenzio più totale. Qualche piccolo spiraglio resta su Internet, ma anche qui per ben poco, visto che un fresco provvedimento varato dall’esecutivo guidato da al-Sisi ha previsto un apposito “Consiglio per la Sicurezza Informatica”, per monitorare tutto quanto avviene in rete, oscurare siti e punire i reprobi.
Commenta Sara: “le notizie su attacchi terroristici e operazioni anti terrorismo devono essere riportate esclusivamente sulla base delle dichiarazioni ufficiali del potere. Tutto il materiale che potrebbe rappresentare un sostegno alla Fratellanza Musulmana è ovviamente vietato e perseguibile e quasi tutti i mass media di simpatie islamiste, inclusi i canali satellitari, sono stati chiusi nel 2013”.
“Molto rischioso, poi, è informare sulla situazione carceraria, ovviamente su eventuali torture (come nel caso Regeni, ndr) o sulle tensioni interconfessionali tra musulmani e cristiani copti. Le testate più solide e ovviamente filo-governative, dal canto loro, hanno accentuato la propria attitudine celebrativa verso i militari, mentre al-Sisi ha saputo sfruttare i motivi e i topoi della cultura popolare per glorificare la propria immagine, attraverso manifesti, gadget, canzoni, video filo militari”. Da perfetto minculpop mussoliniano.
E passiamo ad alcuni casi emblematici di giornalisti spediti nelle patrie galere, nel corso dell’ultimo anno. Gennaio 2015. Per celebrare in modo adeguato l’anniversario della “Rivoluzione”, il 25 gennaio 2015 sono stati arrestati una quarantina di blogger, a quanto pare ancora oggi detenuti.
Agosto 2015. Condannati in appello a tre anni di carcere 3 giornalisti di al-Jazeera, arrestati due anni prima con l’accusa di aver diffuso false notizie pro Mohamed Morsi, l’ex presidente egiziano, e pro Fratelli Musulmani. Si tratta dell’australiano Peter Greste, degli egiziani Mohammed Fahmy (con passaporto canadese) e Baher Mohammed. I tre, accusati di lavorare “senza permesso”, non erano iscritti – secondo l’accusa – al sindacato dei giornalisti egiziani né registrati al ministero dell’Informazione: quindi “non si tratta di giornalisti”, ha sentenziato il giudice Hassan Farid.
“Una sentenza molto pericolosa”, ha commentato Amal Alamuddin, moglie di George Clooney e legale di Fahmy, chiedendo al presidente al-Sisi di concedere la grazia. Circostanza che – evidentemente per il rilievo mediatico che la vicenda andava assumendo, anche per le proteste di piazza – si è verificata a novembre. Mentre intanto, però, oltre una ventina di giornalisti continuano a vedere il sole dietro le sbarre.
Un colpo al cerchio e tre alla botte, ed eccoci ad un’altra vicenda che ha fatto non poco parlare, sempre a novembre 2015. L’8 novembre, infatti, è stato arrestato uno dei principali giornalisti investigativi rimasti sul campo, nonché attivista per i diritti umani, Hossam Bahgat. Giornalista d’opposizione al regime da oltre una dozzina d’anni, firma del portale indipendente (fino a quando?) d’informazione “Mada Masr”, fondatore della coraggiosa “Egyptian Initiative for personal rights”, Bahgat è accusato da un tribunale militare per “attività strettamente civili”.
In particolare, l’accusa a suo carico è di “pubblicazione di notizie false che danneggiano gli interessi nazionali e di informazioni che disturbano la quiete pubblica”. Prima del suo arresto – raccontano alla Farnesina – “sono stati arrestati anche Salh Diab, fondatore del primo giornale privato egiziano, ‘Al Masry al Youm’, e suo figlio, mentre nel corso della stessa giornata l’amministratore della pagina Facebook Internet Revolution Egypt, Abdel Naby, è stato interrogato insieme alla made e al fratello senza alcun valido motivo”.
Eppure, pochi giorni dopo arresti, fermi e interrogatori, il presidente Abd al-Fattah al-Sisi ha così parlato davanti ai microfoni della Cnn: “Non vorrei esagerare, ma in Egitto godiamo di una libertà di espressione mai vista prima d’ora. Nessuno può impedire a un giornalista di esprimere la propria opinione sulla carta stampata o in televisione”.
Forse esagera appena un po’…