L’imputato era stato condannato in primo grado dal tribunale militare di Roma a tre mesi di reclusione militare per diffamazione pluriaggravata. Sentenza ribaltata dalla Corte militare d’Appello di Roma, che lo aveva assolto per per insussistenza del fatto, poiché l’identificazione della persona offesa risultava possibile soltanto da parte di una ristretta cerchia di soggetti rispetto alla generalità degli utenti del social network, non avendo l’imputato indicato il nome del suo successore. La prima sezione penale della Cassazione ha ribaltato il verdetto, riconoscendo come la frase fosse “ampiamente accessibile, essendo indicata sul cosiddetto ‘profilo'” e l’identificazione della persona offesa favorita dall’avverbio “attualmente” riferita alla funzione di comando rivestita. Tra l’altro “il reato di diffamazione non richiede il dolo specifico” ma la “consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza anche soltanto di due persone”.
In primo grado, il maresciallo era stato condannato dal tribunale militare di Roma a 3 mesi di reclusione militare, ma in appello il verdetto era stato ribaltato perché nelle frasi ingiuriose non si faceva diretto riferimento al collega. Il procuratore generale militare aveva impugnato la sentenza di secondo grado in Cassazione e la Suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso e disposto un nuovo processo d’appello. “Ai fini dell’integrazione del reato di diffamazione – si legge nella sentenza – è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone indipendentemente dalla indicazione nominativa. Il reato di diffamazione non richiede il dolo specifico, essendo sufficiente ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo della fattispecie la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza di più persone, anche soltanto due”. E in questo caso, conclude la Corte, “non può non tenersi conto dell’utilizzazione del social network, a nulla rilevando che non si tratti di strumento finalizzato a contatti istituzionali tra appartenenti alla Guardia di Finanza, nè alla circostanza che in concreto la frase sia stata letta soltanto da una persona”.
Ma attenti anche ai Like, a Gennaio infatti, per un “like” su Facebook si rischia una condanna da sei mesi a tre anni, o una multa di 516 euro. La procura di Parma ha infatti chiesto il rinvio a giudizio di un uomo per concorso in diffamazione aggravata. Lo racconta la “Gazzetta di Parma”. La sua colpa sarebbe stata quella di aver espresso il proprio gradimento, con un semplice clic, su una bacheca altrui, ad un commento ritenuto offensivo nell’ambito di una accesa discussione scoppiata fra due donne. Le due, a quanto ricostruisce il giornale parmigiano, avevano collaborato ad un progetto, che aveva coinvolto anche l’uomo. Poi fra loro era scoppiata una profonda lite, resa pubblica sulle pagine del più popolare social network. Durante una di queste liti una delle due contendenti si è ritenuta diffamata da un commento postato dall’altra. E si è rivolta al giudice per perseguire non solo l’autrice del commento in questione, ma anche chi, con un semplice “mi piace”, aveva dimostrato di essere d’accordo.
Home
Giurisprudenza Cassazione, rivoluzione sul web. Vi è reato di diffamazione anche senza farne...