Le notizie presenti negli archivi digitali dei giornali vanno aggiornate. Ne va del rispetto della privacy e dell’integrità dell’identità personale. Lo affermano la Cassazione e l’Autorità del garante per la gestione dei dati personali. Gli editori dovranno predisporre sistemi tecnologici che consentano di modificare i vecchi testi. È un compito di difficile applicazione visto l’estrema “fluidità” della rete. Intanto i garanti per la privacy di sei Paesi dell’Unione europea accusano Google di una gestione scorretta dei dati degli utenti. Il colosso di Montain View, secondo gli organismi di Bruxelles, userebbe a scopi commerciali le informazioni senza chiederne espressamente il permesso. Google, dal canto suo, si difende e rilancia: «Rispettiamo la legge e offriamo servizi efficienti».
Ma procediamo con ordine. E partiamo dalla relazione tra privacy, diritto all’oblio e diritto all’informazione. D’ora in poi gli articoli sensibili di divulgazioni di dati personali (soprattutto quelli inerenti alla cronaca giudiziaria) dovranno essere aggiornati. Sempre previa richiesta dell’interessato. Lo ha affermato l’Autorità per la protezione dei dati personali. Ma attenzione: i testi non saranno soggetti a qualsivoglia censura. Bisognerà “solo” aggiornarli. Il tutto tramite un link, un banner o un collegamento a qualche riga di implementazione del testo originario.
Per capirci: se in un testo si fa riferimento ad una persona condannata in prima grado per un reato, e poi questa viene assolta, i gestori dell’archivio informatico dovranno ricordarsi di aggiornare il testo originale.
Stiamo parlando del cosiddetto diritto all’oblio e della relazione di quest’ultimo con l’identità digitale delle persone. L’argomento non è semplice. E non mancano pareri discordanti.
Innanzitutto alcune premesse. Il diritto all’oblio prevede, per l’interessato, la non diffusione di precedenti notizie sul proprio conto. In genere lo si invoca per precedenti poco lusinghieri, quali condanni, accuse o altri dati personali particolarmente sensibili. Il tutto è ovviamente derogabile nel caso in cui ci sia un’intersezione con nuovi fatti di cronaca e di interesse pubblico.
Ma, nell’era di Internet che nulla dimentica e nulla “cancella”, come bisogna gestire tale diritto? E quest’ultimo come si concilia con il diritto all’informazione?
Il Garante per la privacy e la Corte di Cassazione sembrano aver delineato delle precise linee guida in tal senso.
L’Autorità ha recentemente affermato (in seguito ad un esposto presentato da alcuni “protagonisti”, loro malgrado, di cronache giudiziarie apparse su un paio di giornali del Nord Italia) che i dati personali contenuti nei servizi giornalistici, in caso di sviluppi, devono essere aggiornati. E lo ha fatto con due provvedimenti “gemelli”: il n. 434 del 20 dicembre del 2012 e il n.31 del 24 gennaio del 2013. Prima ancora è stata la Suprema Corte a tracciare la via con la sentenza n. 5.525 del 2012.
I giudici di legittimità hanno sottolineato la relazione tra i dati sensibili divulgati e l’identità personale del soggetto a cui «va garantito la contestualizzazione e l’aggiornamento delle notizie. In quanto la situazione descritta all’origine può cambiare o mutare completamente». E tali variazioni di stato, se non dichiarate, rendono la notizia originaria suscettibile di una sorta di “falsità diacronica”.
Agli editori spetta un compito “bifronte” e arduo: mantenere viva la memoria degli avvenimenti passati (in quanto, è bene precisare, che gli articoli non bisogna mai cancellarli); e nello stesso tempo aggiornarli. E il problema non sta in un mero diniego alla continua contestualizzazione. Ma nel modo in cui occorre farlo. Parliamo della “attrezzatura” tecnologica che serve per impiantare link, banner e collegamenti vari all’archivio digitale.
E poi non bisogna sottovalutare il potere di condivisione della rete. Oramai le news viaggiano indisturbate tramite link su Facebook, Twitter, blog e vengono riprese dagli stessi giornali. Quindi anche la correzione delle notizie presenti nell’archivio storico di un quotidiano non garantisce che tutti gli altri “cloni” della notizia stessa abbiano avuto lo stesso trattamento.
Di conseguenza riuscire nell’intento di rendere gli articoli sempre giovani è una traguardo non da poco. «Dio perdona, la rete no», affermò il Commissario europeo per privacy e trattamento dei dati personali, Viviane Reding.
Quindi bisogna convenire che nell’era della condivisione dei contenuti e della informatizzazione esasperata tutelare la privacy non è una cosa semplice.
E anche Google, il motore di ricerca più usato al mondo, sta avendo non pochi problemi relativi all’uso dei dati personali. Infatti è di ieri la notizia che le Autorità garanti per la privacy di sei Paesi europei (Italia, Regno Unito, Francia, Germania, Spagna, Paesi Bassi) hanno avviato un’indagine sull’uso che la società di Montain View fa dei dati degli utenti.
Secondo le Autorità europee Google gestirebbe in modo improprio le informazioni derivanti dall’uso che gli “internauti” fanno del servizi che fanno capo alla società californiana: You Tube, Gmail, Google Maps, oltre alle varie consultazioni sul motore di ricerca. In effetti Google gestisce tutte le informazioni che viaggiano in rete. Ed è la stessa società che decide, in base a precise regole, quali siti devono apparire in prima fila e quali, invece, devono essere relegati al milionesimo posto. Inoltre bisogna precisare che il motore di ricerca di Montain View è il monopolista di fatto in Europa dove supera il 90% della quote di mercato. Ciò significa che nelle banche dati di Google si cela un immenso patrimonio di informazioni.
Google, da parte sua, smentisce ogni tipo di scorrettezza: «Rispettiamo in pieno le leggi europee. Inoltre offriamo servizi semplici ed efficienti agli utenti».
Bisogna dire che in ambito Ue manca ancora una precisa legge quadro che accomuni i regolamenti nazionali. Quindi tale vuoto normativo crea “zone d’ombra” difficilmente interpretabili. Ad ogni modo il dibattito delle Autorità europee per la privacy con Google non è cosa di ieri. Solo che in precedenza era toccata alle singoli Garanti nazionali interfacciarsi con la società californiana. Ora, invece, si è creata una vera e propria “class action” e sono partiti sei procedimenti istruttori.
Già all’inizio del 2012 a Google fu intimato di correggere la politica di gestione dei dati personali. In quanto violava i requisiti europei per la privacy stabiliti dalla direttiva 95/46/ CE. Allora furono dati a Google quattro mesi di tempo per correggersi. Da allora, però, nulla è cambiato. Ed ecco che le Autorità si sono riunite per fronteggiare nuovamente e meglio il colosso di Montain View. Cosa rischia, ora, Google? In caso di condanna le cifre cambiano in base ai regolamenti dei singoli Paesi. Nel Regno Unito si arriva ad una ammenda di circa 750 mila euro. In Francia c’è un limite di 300 mila. Bisogna dire che le regole per la gestione dei dati sensibili e le relative multe valgono anche per le altre società che hanno a che fare con informazioni. Vale a dire società telefoniche, banche e assicurazioni.
Ma per quale motivo negli ultimi anni si è data tanta importanza alla privacy intesa come identità digitale? La risposta è articolata, ma nello stesso tempo semplice. In poche parole quando “navighiamo” sulla rete lasciamo una seria infinita di informazioni personali: le ricerche che facciamo, i video che guardiamo, le mappe che consultiamo, le persone che contattiamo, ecc. Ciò significa che un’analisi combinata e ragionata, e soprattutto non espressamente dichiarata dei dati consentirebbe, a chi è in possesso di tali informazioni, di ricostruire delle intere identità digitali. Le quali, al giorno d’oggi, coincidono sempre più con quelle reali. E a cosa servono questi dati? Per quale motivo dovrebbe analizzare le nostre tracce sulle rete? Per due motivi, strettamente collegati: per la pubblicità e per venderli ad aziende terze. Le quali utilizzeranno tali “notizie” per organizzare al meglio i propri spot.
Infatti il vero motore della rete è lo stesso degli altri media: la pubblicità. «Tutto sembra gratuito. Ma in realtà tutto è pagato da uno spot universale di cui siamo in parte attori inconsapevoli», ha scritto Massimo Sideri sul Corriere della sera.
Intanto Alma Whitten, responsabile Google per la privacy si è dimessa. Qualcosa sta cambiando?