In Irak morti 259 giornalisti

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Il mondo dell’informazione tira oggi conti amari: in questi 10 anni di guerra ha lasciato sul terreno 259 giornalisti, un’ottantina i reporter e poi tutti coloro senza i quali non potremmo fare seriamente il nostro mestiere, informatori, interpreti, autisti, accompagnatori. E’ il conto più tragico delle guerre moderne, ma non è il solo bilancio critico dei media. In Irak, si è consumata l’illusione che il reportage di guerra potesse continuare a mantenere l’identità genetica del giornalismo: la pratica sul campo, l’atto testimoniale.
Non è che questo sia mancato del tutto, ma la centralità del processo informativo si era ormai trasferita sulla Rete, facendo di Internet la fonte prioritaria della costruzione dell’informazione. Se nell’altra guerra del Golfo, quella di Schwarzkopf del ’91, il reporter doveva misurarsi con l’utilizzo che le redazioni facevano delle agenzie giornalistiche (quel 16 gennaio, mentre ero ancora in Arabia Saudita, vedendomi passare sulla testa i B-52 che andavano a bombardare Baghdad telefonai subito al giornale, “Preparate l’edizione speciale, la guerra è cominciata”, e la risposta perplessa della redazione fu “Ma non abbiamo ancora le agenzie”; sbattei giù la cornetta), oggi le redazioni trovano dentro il computer una infinità di “notizie” che, nella lettura in tempo reale, finiscono per assegnare al racconto testimoniale un misura valoriale appositiva.
Conta poco che la velocizzazione della comunicazione – come ricordava Paul Virilio – sia del tutto indifferente alla qualità del “messaggio”, cioè alla ricerca di una verità; il reporter scivola in un angolo e, preso a tenaglia tra la velocità della Rete e la spettacolarizzazione che l’egemonia della tv impone all’informazione, finisce per tentare un recupero spostando l’asse della sua narrazione sul piagnisteo e sull’”ioismo”, usando forme stilistiche e figure retoriche che sviliscono l’identità della realtà.
Questo, accade ormai in ogni campo del procedere giornalistico; ma in guerra, naturalmente, celebra la propria apoteosi, perché lì dove si lotta e si muore la narrazione consente una semplificazione manicheistica assai utile ad agganciare reazioni facili, emozioni, più che riflessioni.
Due altri aspetti hanno segnato questo degrado del giornalismo ( il giornalismo, non solo il reportage di guerra). Il primo fu il Gran Circo montato a Doha dal Pentagono, il tendone hollywoodiano che esprimeva la rappresentazione simbolica di come dev’essere oggi l’informazione, uno spettacolo per le immagini, dove la parola perde ogni valenza semantica. E il secondo fu la ri/creazione degli embedded (erano stati creati nelle due Guerre mondiali), offerti come risposta alla domanda di testimonianza che poneva il giornalismo. In apparenza davano realtà a quella domanda, ma nei fatti – e non a caso li volle l’’Ufficio Psicologico del Pentagono – erano una pura illusione, bloccata dalla censura, fortemente limitata dal campo d’intervento. Scrisse poi un giovane reporter americano, embedded: “Ho visto poco, ho capito ancor meno”.

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