L’editoria è in crisi. Aumentano gli “stati di crisi” e le ristrutturazioni aziendali. Di conseguenza schizza alle stelle anche il ricorso agli ammortizzatori sociali e ai contratti di solidarietà saliti, rispettivamente, del 400% e del 450%. L’Inpgi lancia l’allarme: «Attenti, le risorse non bastano». E non meno doloroso è il grido che proviene dalla Fnsi: «Restano disponibili solo 17 prepensionamenti. Dobbiamo frenare il ricorso a tale sistema». Ma proviamo a procedere con ordine.
«Le risorse non bastano. Un uso maggiori degli ammortizzatori sociali e la crescente disoccupazione aggravano una situazione già difficile». Queste le parole pronunciate dal presidente dell’Inpgi (Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti), Andrea Camporese il quale ha dichiarato che nel 2013, per arginare l’emorragia dell’editoria italiana, potrebbero servire circa 30 milioni di euro, così come nel 2012. Il doppio dei 15 pronosticati un anno fa (nel 2011, altro anno nero per l’editoria, l’Inpgi erogò “solo” 18 milioni).
I giornali italiani, è inutile ribadirlo, stanno attraversando un momento difficilissimo. Come, in effetti, tutto il sistema economico nazionale. La crisi è crisi e non risparmia nessuno. Un parametro fondamentale è il crollo della pubblicità, linfa vitale per l’intero settore dei media. Nei primi nove mesi del 2012 il mercato degli spot del settore dell’informazione, nell’insieme, è arretrato del 10,5 %, rispetto allo stesso periodo di riferimento dell’anno scorso. In particolare, per i quotidiani, nel 2012 la raccolta pubblicitaria è calata del 13,9 % mentre per i periodici è scesa del 16,2%.
Senza inserzioni, è risaputo, le società editrici fanno fatica ad andare avanti. Certo, ci sarebbero i contributi pubblici. Ma anche quelli sono stati ridotti. E in più, gli aiuti di Stato, attualmente, sono in fase di “riordino” alla luce al decreto legge del 12 luglio del 2012. In base alle nuove norme le sovvenzioni statali saranno distribuite con più parsimonia rispettando parametri precisi come l’equo compenso e le vendite effettive in edicola.
In una situazione del genere le aziende sono costrette a prendere provvedimenti per non finire sul lastrico. Nelle redazioni sono “d’obbligo” i piani di riorganizzazione e ristrutturazione del personale. L’obiettivo è quello di tagliare i costi. Quindi anche i dipendenti. Ecco allora profilarsi il ricorso massiccio allo “stato di crisi”, agli ammortizzatori sociali e alla solidarietà dei lavoratori stessi. In soldoni: fioccano prepensionamenti, cassa integrazione e contratti di solidarietà. Tuttavia, il fondo previsto per i prepensionamenti (20 milioni di euro all’anno messi a disposizione dallo Stato) spesso non basta. Di conseguenza si ricorre sempre di più alla Cigs (Cassa integrazione guadagni straordinari). La quale, ricordiamolo, può essere chiesta, in caso di ristrutturazioni aziendali, stati di crisi, fallimenti in corso e procedure di liquidazione.
I numeri sono impietosi. Stando ai dati forniti dall’Inpgi, nel 2012, sono state 58 le testate che hanno dichiarato lo “stato di crisi”. In termini di giornalisti coinvolti si arriva a 1.139 unità. Il tutto considerando solo i giornalisti assunti con regolare contratto. Di conseguenza le collaborazioni precarie, spesso “tagliate” senza alcuna tutela, non vengono prese nemmeno in considerazione. Dunque molti giornalisti “escono” dal mondo del lavoro. Pochi ne entrano. E nelle casse dell’ente di previdenza c’è uno sbilanciamento notevole tra contributi versati (pochi) e quelli da dare (tanti). Inoltre l’Inpgi è stato “provato” da un triennio difficile. Dal 2010 al 2012 l’istituto ha dovuto, infatti, versare circa 57 milioni di euro in ammortizzatori sociali (29, come accennato prima, solo l’anno scorso). L’indennità di disoccupazione dal 2011 al 2012 è passata dal 4% al 7%. Il ricorso alla Cigs, negli ultimi tre anni, è svettato del 400%. E i contratti di solidarietà sono aumentati addirittura del 450%.
Tuttavia, avendo fatto proficui investimenti immobiliari, l’Inpgi ha chiuso il 2012 con un attivo di 10 milioni. E tale situazione dà a Paolo Longhi, vicepresidente dell’ente previdenziale, un anacronistico ottimismo: «Le prospettive sono pesanti. Quasi tutti stanno portando avanti piani di riorganizzazione e ristrutturazione. Ma l’Ingpi è in grado di garantire il suo ruolo per altri 50 anni». Questa affermazione contrasta con la dichiarazione di Franco Siddi, segretario generale della Fnsi: «Restano disponibili solo 17 prepensionamenti. Dobbiamo frenare il ricorso a tale sistema. Ci vuole molta cautela nelle redazioni. Attraversiamo una crisi senza precedenti».
In ogni caso, è certo che i giornali stanno soffrendo. Il gruppo Rcs, editore del Corriere della sera, sta varando un piano di ristrutturazione. Nei primi nove mesi del 2012 il debito della società era di oltre 857 milioni di euro. E il nuovo ad, Pietro Scott Jovene, dovrà discuterne il primo marzo con i soci del gruppo. È possibile una ricapitalizzazione di 400 milioni. Intanto, però, al Corsera sono a rischio 100 redattori su 395 totali. Si parla del ricorso ai prepensionamenti.
La lista delle testate in crisi, comunque, è lunga. Anche La Stampa è in difficoltà. E in questi giorni i vertici del quotidiano torinese stanno decidendo cosa fare. Pure Il Sole 24 Ore va avanti a fatica. Il giornale di Confindustria ha un bilancio negativo da qualche anno. Nei primi nove mesi del 2012 ha perso 35 milioni. E sono subentrati i contratti di solidarietà che arriveranno fino alla fine del 2014. Sia pur con conti diversi (ma sempre critici) un “rimedio” è stato preso da Europa, dal Foglio e dall’Unità. Hanno dichiarato lo “stato di crisi” Avvenire, Il Messaggero, Il Tempo.
Dopo una delicata fase di agonia è riuscito a sopravvivere Il Manifesto. La vecchia società è stata liquidata. Ed è stata fondata una nuova cooperativa. Così molti posti di lavoro sono stati salvati.
Invece Pubblico, il giornale fondato da Luca Telese, ha avuto una vita di tre mesi: fondato a settembre del 2012 ha chiuso i battenti nel dicembre dello stesso anno. I conti non tornavano. E l’esperimento del giornalista di La7 è stato soffocato praticamente sul nascere.
È riuscito a risorgere (in parte) dalle ceneri “Liberazione”. Il quotidiano di ispirazione comunista non esce in edicola dal primo gennaio del 2012. A nulla sono servite le proteste dei giornalisti. Per un breve periodo è stata prodotta una versione Pdf del giornale. Poi nulla. Morto “sulla carta”, Liberazione è tornato online. E il sito internet è attivo 5 giorni alla settimana per 7 ore.
Sembrano immuni alla crisi, infine, La Repubblica (il gruppo Espresso che lo edita è in attivo) e Il Fatto quotidiano, che dal 2009 (anno della sua fondazione) continua a fare utili. È proprio vero che le eccezioni a volte confermano la regola.