È ORA CHE AL “CORRIERE” IMPARINO A FARE I CONTI

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Le aziende editoriali sono messe male, e continuare a dirlo e ripeterlo non serve a migliorarne la salute. Per salvarle bisogna intervenire col bisturi, non con la zappa. Questo è poco ma sicuro. Ma la crisi del settore parte da lontano; l’errore è stato quello di non intervenire tempestivamente affinché essa non marcisse col rischio di essere irreversibile.
Si apprende che Rcs, il gruppo che pubblica il Corriere della Sera, è sul punto di licenziare 800 persone (fra Italia e Spagna) e la notizia sconvolge chiunque non sia addentro alle segrete cose della carta stampata. Noi del ramo, viceversa, siamo stupiti che la decimazione avvenga solo adesso, tardivamente, quando i famosi buoi sono fuggiti dalla stalla.
In ogni caso auguriamo al Corriere, dove personalmente ho lavorato 15 anni (non sempre con soddisfazione), di uscire presto dalle sabbie mobili che minacciano di inghiottirlo. Qui però è utile spiegare ai lettori come si è arrivati a questo punto, nonostante si stia parlando del primo quotidiano italiano e non dell’Eco di Peretola. In altri termini: chi (e perché) ha ridotto in tocchi un’impresa florida? Cominciamo col dire che la società ha troppi soci con quote modeste: il consiglio d’amministrazione sembra un’assemblea condominiale dove tutti vorrebbero comandare e nessuno ha il potere di decidere. Le delibere non sono sintesi che vadano incontro agli interessi aziendali, ma compromessi, spesso dilettanteschi, faticosamente raggiunti con l’intento di accontentare tutti e col risultato di scontentarli, e di danneggiare i bilanci.

Esempio. Da quale cervello è scaturita l’idea malsana di acquistare giornali spagnoli? È faticoso lavorare in Italia, figuriamoci dalle parti di Madrid. L’operazione costò un’iradiddio e si rivelò ben presto un disastro. Quale logica ispirò simile manovra? Un mistero. Se attualmente i conti sono allarmanti, ciò dipende in prevalenza dai miliardi investiti per rilevare il catorcio iberico, senza il peso del quale via Solferino non sarebbe soggetta a intemperie. Purtroppo i debiti con le banche vanno saldati, altrimenti si aggravano per effetto degli interessi, e la contabilità non quadra. Di qui l’esigenza di sfoltire i prodotti e gli organici, indubbiamente pletorici.

Le responsabilità degli editori – gente che fa altri mestieri, quindi inesperta del ramo – sono fuori discussione, così come quelle dei dirigenti, non tutti all’altezza dell’incarico ricoperto. Poi ci sono quelle, storiche, dei giornalisti a lungo schiavizzati psicologicamente da un sindacato prepotente e supponente. Succube del Comitato di redazione (a maggioranza rossa), il corpo dei cronisti non ha mai risolto il problema di garantire al Corriere una struttura snella e idonea a resistere sul mercato; al contrario, si è impegnato a difendere l’indifendibile: i livelli occupazionali, come se un’azienda non avesse l’obbligo di mantenerli compatibili con le proprie risorse, ma dovesse assecondare le pretese corporative dei dipendenti.

Il guaio è che, mentre un editore puro è consapevole che il bilancio è sacro, ed è indispensabile sia in attivo, gli editori improvvisati (banchieri, industriali, finanzieri eccetera) cercano di non turbare la pace sociale all’interno dei giornali e di trarre da essi vantaggi «politici», cioè di compiacere partiti, gruppi di potere, governi locali e nazionali. Insomma, considerano quotidiani e periodici strumenti di pressione finalizzati a ottenere favori e appoggi personali, e non organi di informazione organizzati per generare profitto. Il discorso è semplice. Per quale motivo una banca (o un industriale) ambisce a entrare nella proprietà di un’impresa editoriale? Per guadagnare? È l’ultimo dei suoi pensieri. Vuole influenzare l’opinione pubblica in modo da acquisire dei meriti presso coloro che si giovano degli spostamenti di consenso da questo a quel partito (o coalizione di partiti). Io banca ti aiuto a raccattare voti attraverso i miei giornali e tu, politico, me ne sarai grato. Come? Approvando una bella legge che costringa chiunque ad aprire un conto corrente, sul quale speculare. Basta transazioni in denaro contante, tutto passi attraverso gli istituti di credito. È solo un esempio, da non prendersi alla lettera: serve per intenderci senza smarrirci in teorie astruse.

Ma torniamo ai giornalisti. I quali non badano a certe «minuzie» e si affidano al sindacato per avere un avanzamento di carriera (robetta), essere genericamente tutelati, proteggere la scrivania, senza calcolare che i mutamenti tecnologici nell’editoria sono stati tali da richiedere un aggiornamento di mentalità. Una volta la filosofia (si fa per dire) nei giornali era: più siamo e meglio stiamo. Oggi, con l’avvento di Internet e diabolici derivati, il gigantismo cartaceo, le redazioni affollate e la completezza del notiziario non sono più valori, ma zavorra, che incide sui costi e non migliora il prodotto, non accresce le motivazioni d’acquisto.
Fare accettare concetti tanto elementari alla categoria è sforzo vano. Cosicché il Corriere, che dieci anni fa vendeva 500mila copie e raccoglieva pubblicità in proporzione, ora ne vende (forse) 300mila e incassa fatalmente la metà rispetto ad allora. Anche uno sprovveduto intuisce che la struttura aziendale va ridimensionata sulla base dei diminuiti introiti. Quindi c’è poco da indire scioperi se i «padroni», davanti al calo del business, riducono le spese. Non esiste alternativa: o bere o annegare.
Gli ex signorini di via Solferino, però, sono ancora convinti di essere negli anni Settanta quando Angelo Rizzoli, pur di non licenziare, si lasciava strangolare indovinate da chi? Dalle banche, perdio. I fasti di altre epoche sono scomparsi in qualsiasi redazione tranne in quella del Corriere, dove sono persuasi di essere i primi della classe, mentre sono soltanto degli sfigati quanto noi, quanto gli altri colleghi che si arrabattano – fra stati di crisi, prepensionamenti e chiusure varie – per conservare almeno una parte dello stipendio.

Il motto dei cronisti (non solamente italiani) è da modificare: tagliate pure qualcuno per non tagliare tutti. Invece quelli del Corriere hanno avviato una battaglia per non abbandonare la sede di via Solferino – «simbolo di libertà», dicono – rifiutando di trasferirsi nel grattacielo Rizzoli, in via Rizzoli. Ma ci facciano il piacere. Scendano dalla pianta e non trascurino il conto della serva, almeno loro, visto che gli editori non sanno fare neanche quello.

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