INTERNET, LA BATTAGLIA DELLA GOVERNANCE

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Senza troppa pubblicità e senza quel “circo mediatico” che di solito accompagna (e banalizza) i summit internazionali, si è combattuta la settimana scorsa a Dubai una battaglia diplomatica decisiva per l’indipendenza politica di Internet, per la sua governancesovranazionale e per il suo stesso futuro come motore della crescita economica del pianeta. E’ giusto dare all’Onu e ai governi nazionali un maggior potere di controllo sul web, attraverso una regolamentazione molto simile a quella in vigore per i cellulari, per i telefoni e prim’ancora per il telegrafo? E’ giusto imporre un balzello su tutte le comunicazioni elettroniche internazionali come quello che esiste per le telefonate all’estero? A queste domande hanno cercato di rispondere – scontrandosi apertamente (e duramente) – i delegati di 193 paesi riuniti fino a venerdì scorso (il vertice è durato ben undici giorni) negli Emirati Arabi Uniti per la Wcit-12, la conferenza indetta dalla Itu ( International telecommunication union) per aggiornare dopo un quarto di secolo il trattato sulle telecomunicazioni. Diciamo subito che la conferenza non porterà a nessun vero cambiamento nella governance di Internet, perché le posizioni molto ferme dell’Europa, del Giappone, dell’Australia, del Canada e soprattutto degli Stati Uniti – giunti a Dubai con una maxi-delegazione di 190 persone guidata dall’ambasciatore Terry Kramer e composta anche dagli executive di Google, Microsoft,
Yahoo, Facebook e altri giganti informatici – hanno impedito ogni involuzione dirigistica. Ma l’infuocato dibattito degli ultimi giorni sta a ricordare che la questione non si è affatto chiusa per sempre e che esistono pressioni potenti da parte della Cina, della Russia, dell’Arabia Saudita e di molti altri paesi arabi (oltre che delle società di telecomunicazioni “classiche”) per mettere le redini al web sotto l’egida appunto dell’International telecommunication union. E’ uno strano organismo, questo Itu. A chi visita Berna, la capitale della Svizzera, può capitare di imbattersi in un monumentofontana eretto nel 1908 per celebrare la creazione avvenuta addirittura nel lontanissimo 1865 dell’International telegraph union. L’organismo serviva un secolo e mezzo fa a coordinare le norme sull’uso del telegrafo. In seguito il suo campo d’azione fu esteso a tutte le tecnologie di informazione e comunicazione, tra cui con il passare dei decenni la telefonia fissa a cui si aggiunta quella mobile, e poi le orbite dei satelliti, lo spettro delle frequenze radio e infine il web. Infine, l’organismo, che intanto ha cambiato nome in Itu, è diventato dal 1948 un’agenzia specializzata dell’Onu: ha sede a Ginevra e dal 2006 è guidato da un segretario generale che viene dal Mali, Hamadoun Touré. Quando Touré, con l’appoggio degli ambasciatori accreditati a Ginevra, ha indetto la conferenza di Dubai, molti paesi hanno subito pensato di poter approfittare dell’incontro per imbrigliare un protagonista scomodo della vita politica contemporanea. Intendiamoci: già oggi molti regimi autoritari, dalla Cina all’Iran, hanno creato un “firewall” (un muro anti- incendio) che permette loro di censurare alcuni siti scomodi o di monitorare le comunicazioni email e chat. Proprio come si è visto l’anno scorso in Egitto e ora in Siria, e come si vede continuamente in Iran o nella Cina, i governi nazionali sono anche in grado di aprire e chiudere i rubinetti del web, per impedire ai loro abitanti di coordinare le proteste o di ricevere informazioni indipendenti. Ma un conto è adottare unilateralmente misure del genere, spesso senza darne spiegazione, e un altro conto è ricevere l’avallo di una organizzazione delle Nazioni Unite. Di qui il duello a Dubai tra il “partito del controllo” e i sostenitori delle libertà e della autoregolamentazione del “net”. Questi ultimi sono arrivati negli Emirati decisi a difendere strenuamente le loro posizioni, con l’appoggio di un vasto schieramento di forze politiche interne. Il Parlamento europeo, ed esempio, si è espresso prima della conferenza per difendere la neutralità del web. I deputati olandesi hanno votato una legge nella stessa direzione. E il Congresso americano ha votato all’unanimità – circostanza molto rara e molto invidiata a Washington in questa fase della politica d’oltreatlantico – una risoluzione per impedire che il controllo di Internet passasse sotto la giurisdizione delle Nazioni Unite. Gli Stati Uniti hanno ovviamente molto interesse a difendere i privilegi della primogenitura. Creato da Washington come sistema di comunicazione militare, Internet ha il marchio del “Made in Usa”. Il Dns (Domain name system), che è l’unico polo centrale del web e regola il nome dei siti e i loro indirizzi, fa capo all’Icann, una associazione nonprofit americana. Ed è poco realistico pensare che la Casa Bianca voglia cedere questa fonte di controllo e soprattutto questa garanzia di indipendenza del net: tanto più che le pressioni in senso contrario non sembrano ispirate dal desiderio di rendere più democratica la governance del web, quanto di metterlo sotto il controllo del potere politico. All’apertura della conferenza di Dubai, che è stata anche movimentata dall’immancabile attacco di protesta di alcuni hackers e si è occupata anche di privacy, Mosca, Pechino e altri paesi hanno presentato una proposta per dare a tutti i governi “eguali diritti nella gestione di Internet, a cominciare dall’assegnazione di nomi e di indirizzi”. L’opposizione compatta dei paesi più industrializzati dell’Occidente ha fatto arenare l’ipotesi russa, che poi è stata ritirata, anche se, con un voto informale, l’incontro dell’Itu ha avallato una risoluzione per potenziare il ruolo dei governi. Gli Stati Uniti hanno anche bloccato i tentativi di creare una tassa sugli scambi elettronici che, secondo i proponenti, avrebbe aiutato i paesi più poveri a finanziare le infrastrutture della banda larga e l’accesso al web. Una tassa progressiva che avrebe colpito per primi i “big user”, cioè i giganti della rete, che assorbono per le loro esigenze enormi quantità di banda larga. La più contraria a un’ipotesi del genere era naturalmente Google, ossessionata dall’idea di dover pagare un ammontare per ogni click sul suo motore di ricerca. I rappresentanti del governo di Obama e dell’industria della Silicon Valley hanno sostenuto che misure del genere, pur avendo dimostrato una loro validità nel settore della telefonia, sarebbero di impossibile applicazione nel web (dove ogni segnale attraversa vari paesi prima di giungere a destinazione) e comunque avrebbero vanificato il “miracolo del net”, che è appunto quello di permettere a chiunque di accedere a costo quasi-zero alle stesse informazioni in ogni angolo del pianeta. La conferenza dell’Onu sull’uso e la normativa di Internet che si è tenuta dal 3 al 14 dicembre, doveva essere l’occasione per rivedere i tanti punti deboli della governance del web ma non ha portato a grandi risultati

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