Non bastassero i gravissimi problemi economici, al manifesto anche la situazione dei rapporti tra colleghi (e compagni, vista la particolare storia del “quotidiano comunista”), si va facendo sempre più pesante. Un gruppo di undici redattori storici del giornale (ci sono anche due ex direttori) ha annunciato con una lettera l’intenzione di ritirare la propria firma. Motivo della rottura, il titolo scelto dalla direzione il giorno dell’addio di Rossana Rossanda. La fondatrice del quotidiano nei giorni scorsi ha salutato polemicamente i suoi ex compagni spiegando di non ritrovarsi più in una testata dove prevale “l’indisponibilità al dialogo (…) non solo con me ma con molti redattori che se ne sono doluti pubblicamente”.
Una scelta che, dopo le tante difficoltà finanziarie in cui versa il manifesto, rischia di comprometterne ulteriormente la sopravvivenza del giornale e della quale la direzione ha deciso di riferire martedì scorso con il titolo “Noi siamo qui”. Espressione apparentemente banale, ma non per chi conosce i particolari della lunga storia del “quotidiano comunista”. Lo stesso titolo fu scelto infatti nel 2000 quando il neofascista Andrea Insabato fece esplodere una bomba sul pianerottolo della redazione di via Tomacelli. Come dire, insomma, che l’addio di Rossana Rossanda equivale a un attentato.
O questa, almeno, è
l’interpretazione che ne hanno dato Loris Campetti, Mariuccia Ciotta, Astri Dakli, Ida Dominijanni, Roberto Tesi (Galapagos), Maurizio Matteuzzi, Angela Pascucci, Francesco Paternò, Francesco Piccioni, Gabriele Polo e Roberto Silvestri. “Un accostamento voluto – scrivono nella lettera in cui annunciano il ritiro della firma – che nell’allusione resistenziale infrange ogni misura giornalistica, politica, umana”.
Accuse che la direttrice Norma Rangeri respinge però seccamente, parlando del ritiro della firma come di una “scelta stupefacente”. “Quel ‘Siamo qui’ – replica – nasce a metà pomeriggio quando la lettera di Rossana Rossanda compare sul sito di Micromega e poi, di rimbalzo, su quello di Repubblica.it, diventando un’offensiva mediatica. Stravolgendo il modo drammatico ma pacato in cui avevamo pensato di darne subito notizia. Così cambiamo la prima pagina e la titolazione, per dare una risposta, dunque verso l’esterno che disinforma, manipola, magari per spolpare l’osso dei lettori”. “Forse il processo alle intenzioni – si giustifica ancora Rangeri – la perdita di senso delle parole (e dell’interpretazione dei titoli) è dovuta alla grande difficoltà in cui ci troviamo. Speriamo non diventi un ostacolo insuperabile perché al di là di quel che pensa e sente ognuno di noi il manifesto va oltre le nostre persone”.