ROSSANDA LASCIA “IL MANIFESTO”

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Una parola per tutte, ma incandescente: «manipolo». Per l’economista Joseph Halevi, università di Sidney, storico collaboratore de il manifesto , la direzione dell’ultimo quotidiano comunista su piazza sarebbe nelle mani «non più di un collettivo ma di un manipolo che per varie ragioni si è impossessato del giornale». Dunque, addio manipolo. L’accusa di Halevi appare sul sito di Micromega proprio sotto l’altro e ben più clamoroso commiato, fino a ieri impensabile: quello di Rossana Rossanda, 88 anni, Madre Fondatrice nel 1969 del giornale con Luigi Pintor, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Luciana Castellina.
Rossanda è durissima e insolitamente sintetica: «Preso atto della indisponibilità al dialogo della direzione e della redazione de il manifesto , non solo con me ma con molti redattori che se ne sono doluti pubblicamente e con i circoli che ne hanno sempre sostenuto il finanziamento, ho smesso di collaborare al giornale cui nel 1969 abbiamo dato vita. Ogni mio commento settimanale sarà pubblicato, generalmente il venerdì, in collaborazione con Sbilanciamoci e sul suo sito www.sbilanciamoci.info» Davvero una madre che chiude i rapporti con un figlio per lei diventato irriconoscibile.
Oggi il quotidiano pubblica una risposta del direttore Norma Rangeri: «La decisione ci colpisce e ci addolora. Per mille e una ragione. Perciò speriamo in un ripensamento, perché sappiamo che il suo contributo intellettuale è importante per noi, per la sinistra italiana, per il Paese». Rangeri però respinge al mittente l’accusa di chiusura: «La direzione e la redazione hanno mantenuto aperto il dialogo e il confronto dentro e fuori il manifesto , con decine di assemblee interne e anche con assemblee esterne. E al tempo stesso si sono fatte carico di pensare, scrivere, fare uscire il manifesto ogni giorno, nonostante le difficoltà, le avversità, l’amministrazione controllata». Il riferimento al «manipolo» e allo «sciocco» la dice lunga sul clima soprattutto umano in redazione.
Rossanda lascia il manifesto dopo mesi di dilanianti divisioni e di emorragie di firme. Marco D’Eramo se n’è andato dopo 32 anni: «Sento con dolore che questa esperienza umana e politica sta finendo male, come spesso accade in regime di scarsità e penuria». Sullo sfondo c’è infatti, a fine anno, la vendita della testata dopo «il purgatorio della liquidazione coatta amministrativa», come avevano scritto recentemente il direttore Rangeri col vice Angelo Mastrandrea. D’Eramo aveva speso prosa, sentimenti, rimpianti. Invece due righe dalla redazione, gelide è dir poco. Controreplica di D’Eramo: «La collocazione e la risposta che avete voluto dare al mio addio spiega le ragioni del mio commiato più di ogni mia parola». Non fosse fin troppo banale, verrebbe voglia di tirare in ballo la tragedia greca: un massacro tra chi ha lavorato insieme per una vita. Una resa dei conti nell’ultima «famiglia» comunista.
Conferma Vauro, un trentennio di manifesto alle spalle, che ha lasciato il 1° ottobre accusato dalla redazione di essere un venduto: «La parola “manipolo” descrive bene cos’è accaduto lì. E lo dico senza alcuna soddisfazione. L’idea che una storia così intensa e importante per il giornalismo e la politica in Italia finisca così squallidamente e desolantemente, mi procura solo profonda tristezza. Il manifesto di oggi è irriconoscibile da tempo, dilaniato da una piccola lotta di potere. Perché, poi? Per impossessarsi di un cadavere?»

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