La sera di venerdì 2 novembre la Bbc trasmette un popolare programma di approfondimento giornalistico. Si chiama Newsnight. Alcuni milioni di britannici sono seduti davanti alla tv. Buona parte di loro è munita di smartphone e twitta compulsivamente. Si parla di pedofilia, delle accuse rivolte ad un autorevole esponente del partito conservatore. Il servizio non cita il nome del politico accusato di aver molestato, diversi anni orsono, un minorenne. Ma a cinguettare ci vuole un attimo. Qualcuno fa il nome di Lord Alistair McAlpine, ex tesoriere dei Tory. Si scatena un uragano di retweet.
Nel giro di qualche giorno si scopre che la notizia è falsa. La Bbc, già scossa dal caso Savile, è costretta a chiedere scusa. Il direttore generale, in carica da appena due mesi, si dimette seduta stante. McAlpine firma con l’emittente britannica un accordo stragiudiziale. La Bbc si impegna a versare un risarcimento di 229mila euro e rendere pubbliche scuse al Lord. Che finalmente commenta:«Sono consapevole che si tratta di denaro proveniente dal canone che pagano tutti i cittadini britannici. Ne ho tenuto conto al momento di sottoscrivere l’accordo». Lasciando così intendere che diversamente avrebbe preteso ben altra riparazione. Ora però tocca a Twitter.
Il team legale di McAlpine, tesoriere del partito conservatore fino al 1990, sta setacciando Internet per identificare gli utenti che per primi hanno fatto il suo nome. Chris Hutchings, esperto di media per lo studio legale Hamlins ha dichiarato: «La gente usa Twitter come se si trattasse di una chiacchierata e sparge voci infondate, un po’ come al pub. La gente non comprende ancora i rischi legali». Anche chi si è limitato a diffondere la notizia pubblicata da altri, chi cioè ha semplicemente “retwittato”, rischia di doversela vedere con i mastini dello studio Hamlins. Il collegio legale chiederà quindi una transazione, pubbliche scuse e il risarcimento dei danni. In mancanza dell’accordo agirà in sede giudiziaria per i danni.
«Verosimilmente intenteranno un’azione civilistica – spiega l’avvocato Amedeo Barletta, specializzato in diritto penale europeo – Nell’ordinamento britannico basta provare che la notizia falsa ha generato una percezione negativa della persona coinvolta. La particolarità è che, rispetto a quanto accade in Italia, c’è un’inversione dell’onere della prova. Pertanto spetta al citato in giudizio dimostrare di non avere avuto un comportamento diffamatorio». Dal 2010 in Gran Bretagna non esiste più il reato di diffamazione a mezzo di atti di rilevanza pubblica. Quando si configurano lesioni della reputazione, la via maestra è quella del semplice risarcimento del danno. Oppure altri profili penali, come la molestia, l’abuso, il disturbo della privacy. «Per diffamazione in 200 anni ci sono state pochissime condanne – continua Barletta – una è toccata anche a un italiano, l’anarchico casertano Enrico Malatesta, espulso dall’Inghilterra per aver diffamato un agente segreto».