IL CANONE RAI POTREBBE DIVENTARE UNA TASSA. MA NON LO È GIÀ?

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Trasformare il canone Rai da abbonamento a tassa. È questa l’idea del governo “sponsorizzata” anche in Viale Mazzini. L’obiettivo è chiaro: ridurre l’evasione di 500 milioni di euro all’anno. Il contributo per la tv pubblica si inserirebbe nella dichiarazione dei redditi Irpef. In tal modo sarebbe più difficile evaderlo.
Tuttavia ci sarebbe un “errore di forma”. Il canone, in questo modo, cambierebbe solo modalità di riscossione: dal bollettino separato alla fiscalità generale. Ma sarebbe scorretto ipotizzare un cambiamento di “stato”. Il canone Rai non è mai stato un abbonamento in quanto non è facoltativo. Ma obbligatorio per tutti (o quasi). Quindi è da considerarsi un’imposta a tutti gli effetti anche se, in realtà, non è nemmeno una tassa. Perché esiste a prescindere da una controprestazione. Tradotto in soldoni: il canone si paga indipendentemente dall’uso che si fa della tv. Dunque, a voler essere più precisi, si tratterebbe, semmai, di un’imposta basata sulla fruizione dello spettro elettromagnetico delle frequenze.
Ad esempio un cittadino non può rifiutarsi di pagare il canone perché non guarda la Rai. Deve pagarlo ugualmente perché, magari con il suo pc o col suo smart phone, usufruisce del sistema delle radioaudizioni.
La legge che regola la riscossione del contributo per Rai, tra l’altro, è chiara. E recita così: «Chiunque detenga uno o più apparecchi atti od adattabili alla ricezione delle radioaudizioni, è obbligato al pagamento del canone di abbonamento». La norma risale all’articolo 1 del Regio decreto del 1938.
C’è da precisare che negli anni ’30 le persone che possedevano un apparecchio radiofonico non erano tantissime (la prima tv sarebbe arrivata solo nel dopoguerra). E poi, a quei tempi esisteva solo la Rai (che all’epoca si chiamava Eiar). Quindi la norma aveva una sua “logica”.
Oggi tutti hanno una televisione. Oppure, a prescindere dal tubo catodico, gli apparecchi «atti od adattabili alla ricezione delle radioaudizioni» sono diffusissimi. Parliamo dei cellulari di nuova generazione, dei computer, dei tablet ecc.
Quindi, per forza di cose tutti dovrebbero, a norma di legge, pagare il canone, anche se non amano le trasmissioni del servizio pubblico. Quindi stiamo parlando di un’imposta vera e propria. Tuttavia il canone è stato pubblicizzato per anni, sulle reti Rai, come un abbonamento conveniente. Ma l’abbonamento è facoltativo. Lo è, ad esempio, quello a Sky.
Tuttavia, al di là dello status del canone, non bisogna sottovalutare l’evasione generalizzata che lo investe. Infatti il 45% della popolazione nazionale non paga il servizio pubblico. Addirittura al Sud l’evasione arriva all’80%. Il contributo alla tv pubblica è la tassa più odiata dagli italiani. Infatti, anche se si tratta di un importo relativamente modesto (nel 2012 è arrivato a 112 euro) è meno digerita della tassa sui rifiuti o della vecchia Ici (oggi rinata sotto le mentite spoglie dell’Imu).
Ad ogni modo il governo, ma anche Viale Mazzini, hanno intenzione di ridurre l’evasione. La crisi economica della Rai ha reso quasi improrogabile questa battaglia. Il servizio pubblico, nel 2012, avrà una perdita di 200 milioni. E le tredicesime dei lavoratori sono a rischio. L’evasione costa alle casse Rai circa 500 milioni di euro all’anno.
Il premier Mario Monti non si è ancora espresso a riguardo. Lo stesso vale anche per Vittorio Grilli, ministro dell’Economia e quindi “proprietario” del servizio pubblico. Sembra esserci stato, invece, l’assenso della Agenzia delle Entrate.
Dunque, con un inserimento del canone nella dichiarazione Irpef si farebbe pagare la “gabella” a tutti. Quindi ci sarebbero anche i margini per una riduzione generale dell’importo che potrebbe scendere sotto i 100 euro.
In caso contrario, invece, è possibile che il balzello più odiato dagli italiani conosca un’altra ascesa. E così, i contribuenti “fedeli” al servizio pubblico pagheranno per tutti: per gli evasori e per le casse della Rai.
E, ricordiamo, pagheranno un’imposta, e non un abbonamento.

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