Rai Corporation sarà venduta pezzo per pezzo. Già licenziati i 38 dipendenti. Il dg Lei: «serve un modello produttivo più flessibile». Siddi: «intervengano governo e Parlamento. Serve trasparenza, competenza e buona gestione».
In buona sostanza non è successo nulla di nuovo. La chiusura di Rai Corporation fa parte del piano di razionalizzazione delle risorse (potremmo chiamarlo piano “salva Rai”) che è stato votato all’unanimità, mesi fa, dal cda.
Cerchiamo di capire cos’era Rai Coproration. Definita anche Italian Radio Tv System, o anche più artisticamente “The Village” (con preciso riferimento alla sede di New York), era una società, fondata nel lontano 1960, di proprietà della Rai che produceva, distribuiva e commercializzava programmi radiofonici e televisivi del gruppo in America.
Per anni fonte di sprechi e lussi ingiustificati, ma comunque un prestigioso presidio cinquantennale della tv pubblica negli Usa.
Tra qualche settimana, precisamente tra il 2 e il 3 maggio la società sarà venduta all’asta. La base delle offerte non è stata ancora resa pubblica. E se non ci sarà un facoltoso imprenditore che si aggiudicherà il pacchetto completo, si procederà alla vendita dei singoli pezzi: dalle apparecchiature più sofisticate alle scrivanie. Una triste fine: quasi come se si trattasse un bene sequestrato a chissà chi.
La Rai ha anche delegato tale compito (non si sa mai, qualche rigurgito di orgoglio). È stata incaricata una società per espletarlo: la Heritage global partners. Sul sito della suddetta società è possibile visionare tutto il materiale in vendita prima di acquistarlo.
Come è stato detto in precedenza non è successo nulla di nuovo. In fondo Rai Corporation fa parte della grande famiglia di Rai Internazionale che è stata anch’essa chiusa. Solo alcune sedi sono rimaste “in vita”. I corrispondenti dall’estero meno fortunati dovranno appoggiarsi ad agenzie internazionali. Ciò vuol dire che per risparmiare la Rai pagherà somme non certo piccole per affittare agli inviati di turno una scrivania, un computer e un tetto su cui scrivere. Come se fossero le sedi estere i soli veri sprechi di Viale Mazzini.
La chiusura di Rai Corporation non significa solo una sede televisiva “istituzionale” in meno.
Il peggio sta nelle conseguenze che tale chiusura ha sui dipendenti: 38 sono stati avvertiti del licenziamento con una lettera nel gennaio scorso. I licenziati non hanno nessuna possibilità di essere riassorbiti in altri rami o organi di “mamma Rai”. Altro che articolo 18 e tutele varie. Un licenziamento “in tronco” all’americana. “Fired”, dicono da quelle parti. In Italia letteralmente potremmo tradurre con “bruciati”. E non finisce qui. I 38 “fired” e famiglia avevano dei visti di lavoro predisposti dalla Rai in via esclusiva. Ciò significa che dal 3 aprile, se non saranno tornati in Italia o non avranno risolto in altro modo la loro situazione lavorativa, saranno considerati clandestini per la legge americana, quindi privi di reddito e di assistenza medica.
Per il dg Rai si è trattato di una decisione necessaria per rifondare un modello produttivo. Lorenza Lei afferma che la produzione Rai non subirà dei tagli. Per il direttore generale l’aumentata flessibilità sopperirà alla mancanza di strutture fisse.
È intervenuto sulla questione Franco Siddi. Per il segretario della Fnsi si tratta di uno «sbaraccamento triste, avvilente, indice di una Rai che non riesce più a dare valore ai suoi pezzi».
Siddi invoca una riqualificazione: «la Rai merita altre sorti per il valore che ha e per le grandi risorse di rilancio di cui dispone». Il segretario della Fnsi chiama in causa Governo e Parlamento affinché si faccino carico del problema di un’azienda alla deriva.
Per Siddi non ci sono formule magiche per ripartire, ma sono ben chiari i valori necessari al rilancio: «trasparenza, competenza, recupero della missione di servizio pubblico e buona gestione».
Tutto ciò, in teoria, per una grande azienda dovrebbe essere la normalità. Per la Rai sembra quasi un’utopia.
Egidio Negri