«Le obbligazioni del datore
di lavoro concernenti la
tutela previdenziale dei propri
dipendenti non possono
ritenersi inserite nel contratto
di lavoro».
Con questa motivazione la
Sezione lavoro della Cassazione
(60001/12, depositata ieri) ha
annullato la sentenza della Corte
d’appello di Roma che impediva
all’Inpgi il recupero dei
contributi di una giornalista
(circa 4.500 euro) maturati, a
giudizio dell’istituto, sulla differenza
tra il suo inquadramento
contrattuale e quello effettivamente
pattuito con l’editore.
I giudici di merito avevano
stabilito che l’ente previdenziale
«non può incidere, sia pure ai
soli fini della contribuzione dovuta,
sull’inquadramento contrattuale
previsto dalle parti e nemmeno contestato dalla dipendente»
e che quindi «una retribuzione
superiore, e una conseguente
più elevata contribuzione,
può riconoscersi solo
ove sia stato accertato il diritto
della giornalista ad un superiore
inquadramento».
Invece, statuisce la Cassazione,
in virtù del principio di autonomia
del rapporto previdenziale
rispetto a quello di lavoro
e della indisponibilità dei diritti
previdenziali «l’ente previdenziale
è legittimato a richiedere
la contribuzione corrispondente
alla retribuzione
dovuta per le mansioni effettivamente
svolte dal lavoratore,
indipendentemente dalla qualifica
formalmente attribuita dal
datore di lavoro».