BREVETTI MOTOROLA. CI RISIAMO, L’ANTITRUST UE APRE DUE INDAGINI FORMALI CONTRO LA PROTETTA DI GOOGLE

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Oggetto delle inchieste separate è la gestione delle licenze concesse a condizione FRAND sulla compressione video (H.264) che possono far scontare a Mountain View una condanna per abuso di posizione dominante nel mercato interno.

A breve distanza dal via libera dell’Antitrust europeo e statunitense dato all’aquisizione del gruppo Motorola da parte di Google, la Commissione Europea ha deciso di accogliere le denunce depositate da Apple e Microsoft sul presunto uso iniquo di brevetti standard per la produzione di device compatibili con iPhone, iPad, Windows e Xbox. E lo ha fatto mediante l’avvio di un procedimento di urgenza atto a verificare se Motorola sia venuto meno al dovere di licenziare suddette royalties secondo termini giusti, ragionevoli e non discriminatori, pena la condanna per violazione dell’art. 102 del Trattato Ue.
L’accusa sembrerebbe piuttosto fondata dato che nella prassi il Gruppo avrebbe imposto alla concorrenza una quota dai ricavi per ciascun dispositivo pari al 2,25%, una “tassa” ritenuta eccessiva sia da Redmond che da Cupertino, rispetto agli impegni presi dall’azienda con gli organismi di standardizzazione competenti (Standard Setting Organization).

La posizione di Google sembra aggravarsi ulteriormente dato che dalle ultime indiscrezioni, in capo alla società incomberebbe anche l’esito di un altro procedimento aperto dalla Commissione Ue il 30 novembre 2010. Un fascicolo che annovera nomi come
Expedia e TripAdvisor, aggregatori di annunci di viaggi online, che hanno accusato il numero uno della ricerca su internet di pratiche commerciali sleali, lesive della competitività nel settore, specie dopo l’acquisto per 700milioni di dollari da parte di BigG della tecnologia ITA software, utile all’espansione del Progetto Google Flight, il motore di ricerca dei biglietti aerei di Mountain View.
Un’operazione che ha fatto tremare l’intero comparto tanto da creare un sito web apposito “FairSearch.org” attraverso cui altre aziende specializzate come Kayak.com e Farelogix hanno denunciato il concreto rischio di incorrere in un monopolio sul mercato mediante la manipolazione del ranking (la graduatoria) dei risultati della ricerca resa possibile dalla predominanza indiscussa di Google nella search engine optimization (SEO). Sarebbero 13 le segnalazioni raccolte finora da Bruxelles, a quanto pare tutte recanti dettagli anche su pratiche in violazione della normativa a tutela dei consumatori. Un quadro piuttosto allarmante dove al centro dell’inchiesta vi sarebbe anche il mercato della
pubblicità online in cui Google potrebbe penalizzare la visibilità, nei risultati, dei servizi della concorrenza grazie ache alle clausole di esclusività contratte con specifici partners pubblicitari. Una tesi che potrebbe essere in parte avvalorata dagli ingenti investimenti pari a 213milioni di dollari effettuati nel solo 2011 dall’azienda nell’attività promozionale ai propri prodotti. A complicare le cose su un fronte tanto redditizio per BigG, ci pensa anche l’Australia dove un tribunale ha riconosciuto Google responsabile della prassi di pubblicazione di messaggi ingannevoli da parte di quattro inserzionisti del servizio AdWords. Si tratta di una sentenza che dà esito positivo al ricorso della Commissione Australiana per la Concorrenza ed i Consumatori (ACCC) impegnata da 4 anni in battaglie legali contro gli annunci fraudolenti di rivenditori non ufficiali di marchi (ad esempio di automobili) visualizzati dal motore di ricerca senza che Google provvedesse a rimuoverli.
“Questo ricorso solleva questioni molto importanti come il ruolo dei motori di ricerca come editori di contenuti a pagamento nell’era digitale, e questa sentenza è importante perché ha chiarito che Google e altri motori di ricerca sono direttamente responsabili per risultati di ricerca a pagamento fuorvianti o ingannevoli ” ha commentato il Presidente della Commissione, Rod Simms.
La risposta ad una query di ricerca da parte di un consumatore, secondo la Corte Federale, deve essere già fonte di una garanzia di attendibilità sia della correttezza del messaggio veicolato dalla piattaforma sia dell’identità non truffaldina dell’inserzionista. Un marchio di garanzia, per così dire, che verrebbe assicurato nel momento in cui il motore di ricerca fornisce l’Url, ovvero il collegamento diretto all’informazione ingannevole. Una corresponsabilità riconosciuta negli illeciti che potrebbe incidere non poco nel business pubblicitario imbastito da Mountain View, oltre a fungere da ulteriore spunto di indagine sull’ effettiva esistenza di una violazine delle norme a tutela dei consumatori, già al vaglio della Commissione Ue, capitanata dal commissario alla Concorrenza, Joquin Almunia.

Manuela Avino

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