I parlamentari inglesi dicono di no alla pubblicazione “disinvolta” di contenuti sensibili attraverso i più popolari social media e motori di ricerca, specie se in violazione del decreto di un giudice.
“Servizi online come Facebook, Twitter e Google devono impegnarsi di più nel bloccare i contenuti pubblicati sul web che non rispettino le ordinanze giudiziarie a tutela della privacy degli utenti”. E’ stata la Commissione parlamentare mista sulla privacy e le ingiunzioni britannica a ribadirlo in una relazione, in ciò espletando la funzione attibuitale da David Cameron nel Maggio 2011, data in cui fu predisposta al fine di suggerire soluzioni alle anomalie che hanno riguardato di recente le ingiunzioni sulla privacy.
Un paradosso favorito da mezzi di comunicazione interattiva come i social network e dai motori di indicizzazione delle informazioni personali su internet, responsabili, alla stregua dei media tradizionali come la stampa ed i broadcaster televisivi, della divulgazione di tutti quei contenuti definiti come riservati dalle decisioni dei tribunali.
“E ‘importante che le ordinanze giudiziarie si applichino a tutte le tipologie di media allo stesso modo. La crescita di Internet e delle piattaforme di social network è uno sviluppo positivo per la libertà di espressione, ma i nuovi media non possono oltrepassare i limiti della legge” si apprende nel rapporto. E a ribadire tali termini potrebbe provvedere la legislazione britannica per cui tali piattaforme possono essere considerate come “editori secondari” e come tali ugualmente responsabili per le informazioni pubblicate dagli utenti.
Osservazioni che sembrano presagire ulteriori strette alla condotta di compagnie come Google, già nel mirino delle autorità garanti in Europa per questioni attinenti alle nuove regole sulla gestione della privacy associata a più prodotti e servizi. La società con sede in California è stata peraltro invitata dalla Comissione a limitare potenziali violazioni delle ordinanze dei giudici: “Se una persona ha ottenuto un chiaro ordine del tribunale relativo al fatto che delle informazioni violano la sua privacy, quelle informazioni non dovrebbero essere pubblicate e non è accettabile che questa persona debba tornare in tribunale per ottenere la rimozione di quelle stesse informazioni da un motore di ricerca”, ribadiscono i parlamentari. A sostegno di tale tesi sono stati richiamati esempi concreti di alto profilo, storie personali come quella di Max Mosley, ex presidente della FIA, e quel video compromettente a sfondo sessuale, i cui fotogrammi erano stati indicizzati dai risultati dell’algoritmo di Larry Page, rifiutatosi, anche dopo una denuncia del diretto interessato, di rimuoverne il contenuto.
La Commissione ha pergiunta respinto le argomentazioni addotte da Google a propria discolpa, definendole “non totalmente convincenti”. L’azienda si è sempre professata libera da ogni responsabilità diretta nell’opera di filtraggio del materiale pubblicato su internet, anche se tecnicamente possibile. Il gruppo di Mountain View ha replicato ai membri della Commissione inglese di aver sempre rispettato le ordinanze giudiziarie sui contenuti sensibili, ma al contempo tenendo conto del labile confine esistente tra ” la libertà di espressione e la gestione di contenuti illegali” sul web. Un obbligo a cui la compagnia dice di far fronte attraverso specifici strumenti tecnici come “Me on the web”, una delle funzioni rese disponibili direttamente ai netizens per monitorare la propria reputazione online oppure delegando allo stesso team aziendale il compito di eventuale rimozione previa segnalazione. un sistema invalso in altri contesti come Facebook e Twitter, ma a quanto pare non sufficiente per i parlamentari inglesi che arrivano a minacciare potenziali sanzioni: “Google e altri motori di ricerca dovrebbero adottare misure per garantire che i loro siti web non vengano utilizzati come veicoli per violare la legge e dovrebbero attivamente sviluppare e utilizzare le tecnologie necessarie a evitarlo”. I membri della Commissione, suggeriscono inoltre di investire la Press Complaint Commission di poteri ancora più incisivi al fine di mediare anche nei contenziosi tra i privati ed i grandi colossi aziendali del networking e della ricerca su internet.
Suggerimenti che, qualora venissero colti dalle autorità competenti potrebbero, costituire, soprattutto per Google, un ulteriore grattacapo sul fronte delicato della privacy nel contesto dell’Unione.
Manuela Avino