SOCIAL NETWORK “SPIATI”: L’ESEMPIO DEGLI USA E L’INCOGNITA ITALIANA

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Negli Usa il monitoraggio di piattaforme come Facebook e Twitter da parte del Ministero della Difesa è già una realtà. A rivelarlo è stato l’Organismo sulla Privacy di Washington, EPIC. Più di 500 sarebbero le parole sensibili che attiverebbero un meccanismo di revisione dei post pubblicati sui principali social network, con il rischio, per gli utenti, di venire indagati una volta inseriti in una lista nera dei sospettati di attentare alla sicurezza nazionale. Una prassi consolidata con la complicità degli stessi gestori dei social media, che non a caso prevedono al riguardo precise regole di condotta, differenti da stato a stato, e atte a privilegiare il dialogo con le Autorità Governative e Giudiziarie, attraverso Termini d’Uso in deroga alle forme di tutela e protezione dei dati personali degli iscritti al servizio.
Se nel Paese a stelle e strisce i critici parlano di deriva autoritaria con il pericolo di emulare il modello Cinese, in Italia la situazione sembra essere a tratti molto più complicata. Tanto da sottoporre la questione ad un’interrogazione parlamentare avanzata dall’On. Pierfelice Zazzera (IDV) il 9 febbraio del 2011. Oggetto del question time è stato il contenuto di un articolo pubblicato dal settimanale L’Espresso del 28 ottobre 2010 in cui si denunciava l’esitenza di un patto di collaborazione tra la polizia postale italiana ed i rappresentanti di Facebook, volto ad implementare alcune forme di controllo preventivo e di contrasto a presunte attività illecite commesse sul noto social network. Fin qui nulla di strano, eccetto una previsione discutibile, quella di consentire alle Forze dell’Ordine (secondo quanto riportato da fonti interne, di alto grado, al corpo di polizia) di accedere liberamente ai profili degli utenti, acquisendone con “disinvoltura” i relativi dati, senza un mandato dell’Autorità Giudiziaria o un avviso di garanzia per l’utente, fino a scavalcare i tempi di attesa per l’avvio di una rogatoria internazionale, nel caso di server localizzati all’estero.
Fughe di notizie poi prontamente smentite dal Direttore centrale della Polizia Postale, Antonio Apruzzese, che ha ribadito il rispetto delle procedure imposte per legge, pena la non validità delle prove addotte in sede processuale: «Se violassimo la Rete senza autorizzazione della Magistratura commetteremmo un reato penale». Una tesi poi confermata anche dal Ministro per i Rapporti con il Parlamento, On. Elio Vito, nella sua risposta immediata all’interrogazione dell’On. Zazzera: «Secondo il Ministero dell’Interno, tale accordo (tra la Polizia Postale e Facebook, ndr) composto dalle Linee Guida eleborate nel pieno rispetto delle garanzie previste dall’ordinamento vigente, non consente in alcun modo di accedere illegalmente ai profili e ai dati riservati degli utenti italiani in assenza di specifici provvedimenti dell’autorità giudiziaria».
Si tratterebbe dunque, secondo il Ministero, di un semplice protocollo procedurale, di quelli di solito stipulati tra le forze dell’ordine ed i vertici di una società privata al fine di rendere più sinergici i rapporti di cooperazione bilaterale e da avviarsi solo in casi specifici. Una simile prassi verrebbe riservata anche all’altro sito di Microbloggling, Twitter, che nei Termini di Servizio prescrive: “le informazioni personali degli utenti non vengono rilasciate, ad eccezione di quando legittimamente richieste per procedimenti giuridici dagli organi statali competenti, come nel caso di citazioni, ordini del tribunale, o altri procedimenti legali“.
In Italia, i reati per cui la magistratura può concedere l’autorizzazione alle indagini su internet da parte dei 400 agenti dislocati su territorio nazionale e facenti capo alla Direzione Investigativa della Polizia Postale, sono quelli contro la persona (furto di identità per frode, diffamazione), il patrimonio, i suicidi, gli omicidi e la criminalità organizzata. A ciò si aggiungono anche i poteri esclusivi conferiti per legge (n.38/2006) alla PolPost nell’opera di contrasto alla pedofilia e la pedopornografia informatica con la costituzione nel 2008 di un Centro nazionale per il monitoraggio, avente il compito di raccogliere segnalazioni, provenienti anche dagli organi di polizia stranieri e da soggetti pubblici e privati. La legge dota già gli agenti in questione di specifici strumenti investigativi volti al contrasto di siffatti crimini informatici, con la possibilità di effettuare su internet “acquisti simulati” di materiale illegale e di navigare nella rete “sotto copertura” aprendo anche profili fasulli.
Eppure la rivelazione fatta dall’Espresso grazie ad ammissioni di un alto dirigente dello stesso Corpo di Polizia, lascierebbe emergere una prassi di intervento “preferenziale” ancora più disinvolta e che ha aperto numerosi interrogativi, tutt’ora rimasti irrisolti, sull’effettivo modus operandi dei funzionari delle forze dell’ordine. In merito all’accordo di collaborazione citato, la fonte anonima interpellata dal settimanale d’inchiesta, aveva rivelato che suddetto patto con Facebook prevedesse addirittura «di evitare la richiesta all’Ag (autorità giudiziaria, ndr) e un decreto (del pm, ndr) per permettere la tempestività, che in questo settore è importante». Mentre sulle possibili ripercussioni che tale prassi potrebbe avere sulla garanzia della riservatezza delle comunicazioni private, l’alto dirigente si sarebbe così pronunciato: «La fantasia investigativa può spaziare, si tratta di osservazioni virtuali, che verranno utilizzate anche in indagini preventive». Mentre ancora un’altra fonte anonima dell’arma dei Carabinieri avrebbe rivelato: «Non sempre facciamo un resoconto alla procura e nei verbali ci limitiamo a citare una fantomatica fonte confidenziale».
Si tratta di dichiarazioni che a due anni di distanza destano ancora non poche perplessità. Specie in una realtà dove il monitoraggio del web risulta già da anni di competenza degli investigatori delle Digos e dei reparti operativi dell’arma dei Carabinieri (dal grado di Maresciallo in su) e della Guardia di Finanza, autorizzati a infiltrarsi sotto copertura non solo nelle piazze virtuali dei social network e nei gruppi ritenuti a rischio ma anche nei forum e nelle chat (anche quelle dei social media andando in certi casi a ritroso di un anno) oltre che ad operare forme di controllo preventivo sui blog e siti internet.
Il che rischia di rendere sempre più labile e problematico il confine tra prevenzione e incriminazione per reati informatici e tutela della riservatezza delle conversazioni oltre che della privacy e dei dati personali online.
Alberto De Bellis

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