LEGISLAZIONE SULLA STAMPA: PERCHÉ L’ITALIA È INDIETRO RISPETTO ALL’EUROPA

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Sui limiti di attuazione della legislazione sulla stampa in Italia, riguardo alle forme di tutela della professione giornalistica, la giurisprudenza europea è intervenuta già da tempo, pur risultando inascoltata nel nostro Paese.
Per il regime penale del reato di diffamazione per i giornalisti, la risoluzione 1577 (2007) del Consiglio d’Europa aveva invitato gli stati membri ad abolire le condanne alla reclusione per i giornalisti. Un appello all’Italia in tal senso è venuto anche da Londra, attraverso la Ong “Article 19” che in una lettera indirizzata solo poche settimane fa ai Presidenti delle Camere, Gianfranco Fini e Renato Schifani, ha rivolto un invito al legislatore italiano affinché aggiorni la normativa del 1948. Un intervento che dovrebbe puntare a depenalizzare il reato di diffamazione per i giornalisti, derubricando il vigente art. 595 del codice penale, da doloso a colposo.

Riguardo poi al diritto all’anonimato delle fonti – che in Italia è previsto solo per i giornalisti professionisti dal Codice di procedura penale (art. 200) – l’art 10 sulla Libertà di espressione della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (“Ogni persona ha diritto alla libertà di opinione, di ricevere o di comunicare informazioni senza ingerenza da parte delle autorità pubbliche”, L. 4 agosto 1955 n.848) così come interpretato dalla corte di Strasburgo (sentenze Goodwin e Roemen) impone già l’osservanza del segreto professionale dei giornalisti (pubblicisti e professionisti) oltre ad ampliare il diritto di cronaca di dare e ricevere notizie. Obbligo reso operativo dal Consiglio d’Europa nella raccomandazione R(2000)7 che ha imposto di fatto agli stati contraenti di uniformarsi a quanto previsto dalla Corte di Strasburgo. Una prescrizione recepita anche di recente dalla Corte di Cassazione che con sentenza n.19985 del 30 settembre 2011 ne ha imposto l’osservanza ai giudici nazionali, che dovrebbero quindi applicare la normativa e giurisprudenza europea, avendo quest’ultima carattere prevalente.
Facendo i dovuti confronti, in Inghilterra il segreto professionale per i giornalisti è riconosciuto ampiamente, mentre in Germania il codice penale è stato di recente aggiornato, imponendo alla magistratura l’obbligo di non persecuzione del giornalista che pubblichi informazioni segrete o riservate nell’interesse dell’opinione pubblica. Solo il funzionario che non abbia ottemperato al segreto d’ufficio può essere convocato dalle autorità giudiziarie.
In Italia l’unico approccio in sede Parlamentare volto a modificare il quadro normativo vigente risale ad una proposta di legge del maggio 2008 firmata da Gaetano Pecorella (Pdl). Il ddl in questione prevedeva infatti la sostituzione delle pene detentive con sanzioni pecuniarie, comminando ulteriori multe per chi presentasse querele “temerarie” allo scopo di “ridurre il rischio di querele presentate solamente come forma di pressione psicologica in vista di un risarcimento civile, fenomeno che vede proprio i giornalisti quali principali vittime”. La proposta, inutile dirlo, è rimasta ferma in Parlamento.
Eppure in Italia numerosi sono i casi di condanne a pene detentive di giornalisti colpiti da querela per diffamazione. Basti citare a titolo di esempio la clamorosa sentenza di Chieti del maggio scorso per la denuncia dell’allora sindaco di Sulmona, Franco La Civita, che nel 2007 ha visto coinvolti due giornalisti del quotidiano “Il Centro” di Pescara, Walter Nerone e Claudio Lattanzio, e l’allora direttore Luigi Vicinanza, per un articolo riguardante certe verifiche sulla consistenza patrimoniale del sindaco operate dalla Guardia di Finanza. La condanna è stata di un anno di carcere per i primi due e 8 mesi di reclusione per il secondo, senza che venisse accordato il beneficio della condizionale, essendo stati ritenuti gli imputati già “censurati”.
Manuela Avino

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